Quante volte noi insegnanti di matematica ci siamo sentiti dire: “Non sono portato per la matematica”? Spesso anche i genitori, come giustificazione durante i colloqui, ci ripetono che non è colpa dei loro figli se non riescono in matematica: in fondo, anche loro avevano difficoltà con questa terribile materia e i figli sono quindi incapaci per colpa della genetica.

Pare che il problema abbia carattere pressoché universale se Miles Kimbal, della University of Michigan e Noah Smith, della Stony Brook University, hanno deciso di dedicare un articolo all’argomento alla fine di ottobre.

In realtà, si tratta di un’idea sbagliata oltre che potenzialmente distruttiva. Se ci convinciamo di non essere portati per la matematica, tendiamo a non impegnarci nello studio, visto che è inutile perdere tempo per una cosa nella quale non abbiamo possibilità di successo.

L’idea è che l’abilità matematica non sia una caratteristica genetica. Certo, se pensiamo ai grandi matematici non possiamo che credere che ci debba essere qualcosa di straordinario che si è realizzato a livello genetico, ma se pensiamo alla matematica delle scuole superiori, le capacità innate sono meno importanti del duro lavoro, dell’impegno e della fiducia in se stessi. E se non basta l’esperienza per convincercene, ci sono studi di eminenti psicologi in merito: chi è convinto che l’intelligenza sia una caratteristica dell’essere umano che non può essere cambiata, come se ci fosse stata data in una certa misura nel nostro corredo genetico, non si impegnerà in maniera sostanziale per migliorare le proprie abilità, visto che non è possibile. Perciò anche i risultati ne risentiranno.

Chi invece è convinto che l’intelligenza sia una caratteristica che può essere cambiata, incrementata con lo studio, otterrà risultati migliori, perché si impegnerà in misura maggiore, proprio per aumentare e migliorare le proprie abilità. Credere di poter migliorare grazie al proprio lavoro ci rende più forti nella vita, ci regala una marcia in più, anche se non è facile accettare questo dato di fatto: farlo proprio implica, infatti, una maggiore responsabilità.

Se siamo convinti che le nostre abilità dipendano dal corredo genetico che ci è stato fornito, possiamo dare la colpa al caso, o comunque è una cosa al di fuori di noi, che non dipende da noi. Se, invece, ammettiamo di poter essere parte attiva nel nostro processo di crescita, perché possiamo incrementare la nostra intelligenza con il duro lavoro, diventiamo consapevoli di avere in mano le chiavi del nostro successo.

Rinunciare a migliorare le prestazioni matematiche può essere particolarmente autodistruttivo: la matematica ci può aiutare a ottenere posti di lavoro migliori, ma non solo. Convincersi di poter ottenere buoni risultati in matematica potrebbe essere il primo passo per ottenere qualsiasi cosa si voglia.

Spesso si sente citare come un motivo di orgoglio la propria incapacità matematica, ma in fondo è un modo per nascondere il proprio senso di inferiorità e per giustificare la propria fuga di fronte a tutto ciò che la riguarda.

Guardando ai paesi dell’Asia Orientale, possiamo notare i grandi risultati che essi ottengono nell’educazione in ambito scientifico. Ci sono alcune rilevanti differenze tra il nostro sistema educativo e il loro: il maggior numero di giorni di scuola in un anno, l’elevato numero di ore dedicato allo studio ogni giorno dai ragazzi delle superiori, la convinzione che l’intelligenza possa essere qualcosa di malleabile, che il fallimento non sia che un trampolino di lancio per intraprendere un cammino di crescita e che sia importante lavorare duramente per ottenere un risultato.

Gli autori dell’articolo sottolineano anche quanto sia importante cambiare i modelli ai quali ci ispiriamo: i veri modelli devono essere rappresentati da coloro che raggiungono il successo non per il proprio talento, ma grazie alla tenacia, alla grinta, al duro lavoro e all’impegno costante.

Spesso chi non riesce in un ambito ha la convinzione che gli altri riescano meglio solo perché per loro è più facile, mentre la realtà è spesso diversa da ciò che ci raccontiamo: a volte gli altri raggiungono risultati migliori dei nostri solo perché decidono di lavorare di più e di impegnarsi al meglio delle proprie capacità. Ma, lo ripeto, accettare questo stato di cose significa assumersi la responsabilità del proprio fallimento… o del proprio successo.

http://www.theatlantic.com/education/archive/2013/10/the-myth-of-im-bad-at-math/280914/

Daniela Molinari

 

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