L’ effetto Joule

In molti dispositivi elettrici di uso quotidiano l’energia elettrica viene trasformata in calore. Questo processo prende il nome di effetto Joule.

Quando un apparecchio di questo tipo viene messo in funzione, la corrente comincia a fluire nei circuiti interni, e il moto delle particelle che formano la corrente elettrica, favorisce un aumento dell’energia cinetica delle molecole del filo, che di conseguenza si riscalda.

L’energia elettrica, quindi, si trasforma a poco a poco in energia interna del filo.

Il calore che viene prodotto, quindi, è dovuto alla differenza di temperatura tra il filo e l’ambiente circostante; questo permette di convogliare calore in una specifica zona dell’apparecchio, in base al suo funzionamento.

Vediamo ora una spiegazione alternativa dell’effetto Joule, introducendo il concetto di potenza.

 

La potenza elettrica

La potenza degli apparecchi elettrici dipende dalla rapidità con cui l’apparecchio è in grado di funzionare; in particolare, si parla di potenza dissipata dal resistore in riferimento alla rapidità con cui l’energia elettrica è trasformata in energia interna.

Consideriamo un dispositivo all’interno del quale sia presente un circuito elettrico attraversato da una corrente di intensità i, mantenuta da un generatore di corrente che crea una differenza di potenziale V. La potenza che si sviluppa all’interno del circuito è data dal prodotto di i per V:

$ P = i * V$

La formula precedente è valida per qualsiasi tipo di circuito, e qualsiasi tipo di conduttore.

Nel caso di conduttori ohmici, applicando la prima legge di Ohm, troviamo che la potenza dissipata è direttamente proporzionale alla resistenza del resistore, e al quadrato dell’intensità si corrente; si ha, quindi, la seguente relazione:

$ P = R * i^2$

Come abbiamo accennato precedentemente, vediamo con un altro tipo di ragionamento come la potenza che si sviluppa all’interno di un circuito può essere utilizzata per aumentare la temperatura del filo conduttore; partiamo dal fatto che la definizione di potenza ci dice che essa corrisponde al lavoro svolto nell’unità di tempo.

Dagli esperimenti di Joule, fu possibile dedurre che il lavoro e il calore sono de modi per esprimere scambi o trasformazioni di energia. Il calore, come sappiamo, è anch’esso una forma di energia; di conseguenza, è facile supporre che la potenza immagazzinata all’interno di un circuito, non potendo essere sfruttata per compiere lavoro meccanico, viene trasformata in calore.

Dato che un aumento di calore comporta un aumento di temperatura, si conclude che il passaggio di corrente all’interno di un conduttore aumenta la temperatura di esso.

La potenza di esprime in watt (W), mentre l’energia che viene assorbita da un dispositivo elettrico per il so funzionamento si esprime in Kilowattora (kWh); in particolare, 1 kWh corrisponde all’energia assorbita in un’ora da un dispositivo che dissipa la potenza di 1000W.

 

Applicazioni dell’effetto Joule

Vediamo ora alcuni esempi di apparecchi di uso quotidiano che sfruttano l’effetto Joule per il loro funzionamento.

  • Alcuni tipi di lampadine, dette lampadine ad incandescenza, sono costituite da un involucro di vetro all’interno del quale, sotto vuoto, è posto un filo conduttore; la corrente che fluisce all’interno del filo provoca un forte aumento della temperatura di esso, fino a farlo diventare incandescente; questo permette, quindi, di illuminare l’ambiente circostante.
  • Il forno elettrico presenta nella parte superiore un tubo conduttore, che serve per la funzione grill; grazie al passaggio di corrente, esso si riscalda fino a diventare incandescente, e riscaldare a sua volta lo spazio circostante. Il passaggio di calore per irraggiamento permette, quindi, la cottura degli alimenti.
  • Alcuni tipi di piastre da cottura sfruttano la corrente elettrica per scaldare la propria superficie, cosicché sia possibile cucinare ponendo una pentola sopra di esse; in questo caso, il calore passa dalla piastra alla pentola per conduzione.
  • Le stufe elettriche sfruttano l’effetto Joule per generare generare calore; questo calore viene poi trasmesso all’ambiente circostante per convezione, grazie alle correnti d’aria che la attraversano.

 

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La forza elettromotrice

In un circuito, la corrente elettrica è definita come il moto delle cariche elettriche che si spostano all’interno del conduttore. Come sappiamo, questo modo è dovuto allo spostamento naturale delle cariche a causa della presenza di una differenza di potenziale, mantenuta costante da un generatore.

Il lavoro del generatore, infatti, consiste nel trasportare le cariche elettriche contro natura, per ristabilire di nuovo il loro moto naturale. Nel caso di cariche positive, ad esempio, esse vengono trasportate da punti a basso potenziale verso punti a potenziale più alto, quindi dal polo negativo verso quello positivo; qui le cariche positive vengono rilasciate, e così possono ricominciare il loro moto naturale verso punti a basso potenziale.

Il generatore, per spostare le cariche contro natura, deve compiere un lavoro contro le forze del campo elettrico; è conveniente introdurre una nuova grandezza, detta forza elettromotrice, data dal rapporto tra il lavoro compiuto dal generatore per trasportare contro natura una carica q e la carica q stessa:

$f_(em) = W/q$

La forza elettromotrice si misura in J/C, cioè in V, la stessa unità di misura della differenza di potenziale.

In effetti, la fem, nel caso di generatori ideali di tensione, corrisponde proprio alla differenza di potenziale che il generatore mantiene in un circuito.

Questo fatto si verifica anche nel caso di circuiti che sono aperti, ossia circuiti in cui non circola corrente.

Per i circuiti chiusi, e nel caso di generatori ideali di corrente, però, la differenza di potenziale è leggermente inferiore alla forza elettromotrice, in quanto  una parte dell’energia elettrica che viene fornita dal generatore serve per permettere alle cariche di muoversi al suo interno, vincendo la resistenza che esso offre.

 

La resistenza interna

Per descrivere il dislivello tra la differenza di potenziale e la forza elettromotrice si introduce il concetto di resistenza interna del generatore, indicata con $r_i$.

Molto spesso, quindi, si usa rappresentare i circuiti reali con la resistenza interna  $r_i$ , collegata in serie ad un generatore ideale:

forza-elettromotrice

 

In questo modello, la forza elettromotrice corrisponde alla differenza di potenziale ai capi del generatore ideale; la differenza di potenziale ai capi del generatore reale, invece, corrisponde a quella del resistore con resistenza  $R_(eq)$.

Tale differenza di potenziale, quindi, si ottiene dalla formula: ∆V = Ri.

Dalla seconda legge di Kirchhoff, sappiamo che la somma algebrica delle differenze di potenziale che si incontrano percorrendo una maglia è uguale a zero; in questo caso, percorrendo la maglia in senso orario, si incontrano due differenze di potenziale negative e una positiva:

$f_(em) – r_i * i – R_(eq) * i = 0$

Da qui possiamo ricavare l’intensità di corrente del circuito:

$ i = frac(f_(em))(r_i + R_(eq))$

 

La differenza di potenziale e la forza elettromotrice

La differenza di potenziale ai capi del resistore, e quella ai capi del generatore reale, è data dalla seguente formula:

$ ∆V = R_(eq) * i = R_(eq) * frac(f_(em))(r_i + R_(eq)) = frac(R_(eq))(r_i + R_(eq)) * f_(em)$

Notiamo, quindi, che nel casi di un generatore reale di tensione, la differenza di potenziale ∆V non è uguale alla forza elettromotrice, ma è minore.

Vediamo quali sono gli unici casi in cui queste due grandezze sono uguali:

  • quando la resistenza interna ri è uguale a zero, cioè quando il generatore di tensione è ideale;
  • quando la resistenza equivalente è infinitamente grande, cioè nel caso ipotetico di un circuito aperto, in cui non circola corrente.

La resistenza interna limita il valore massimo di corrente che può essere erogata; infatti, anche se non vi fossero resistenze all’interno del circuito, ovvero se la resistenza equivalente fosse nulla, la presenza della resistenza interna fa si che l’intensità di corrente massima sia data da:

$ I_(max) = frac(∆V)(r_i)$

Anche la potenza del circuito è influenzata dalla presenza della resistenza interna; parte dell’energia sviluppata dal circuito, infatti, viene dissipata a causa di essa, cosicché la potenza realmente utilizzabile è minore di quella che si avrebbe idealmente.

Si può dimostrare, infatti, che la potenza realmente sfruttabile è data dalla seguente formula:

$ P = V^2 * frac(R)((R + r)^2)$

 

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La seconda legge di Ohm

La seconda legge di Ohm si applica nel caso in cui in conduttore sia un filo metallico, caratterizzato da una lunghezza l e una sezione trasversale di area A; la legge afferma che la resistenza elettrica del filo è direttamente proporzionale alla sua lunghezza e inversamente proporzionale alla sua area trasversale. La resistenza, inoltre, dipende da una costante, chiamata resistività:

$ R = ρ * l/A$

La seconda legge di Ohm è valida solo nel caso in cui la correte elettrica sia distribuita in modo uniforme nella sezione del conduttore, cioè nel caso di corrente elettrica continua.

La resistività dipende solitamente dal materiale di cui è costituito il filo conduttore, e dalla temperatura a cui si trova; essa viene anche definita come l’attitudine di un materiale ad opporre resistenza al passaggio delle cariche elettriche.

 

Resistività e conducibilità di un materiale

La resistività di misura in Ω ∙ m, e spesso è un buon indice per stabilire il grado di conducibilità elettrica di un certo materiale.

Per valori della resistività compresi tra  $10^-8 Ω * m$  e  $10^-5 Ω * m$  si parla di buoni conduttori di elettricità, mentre per valori molto elevati, che superano  $10^11 Ω * m$, si parla di buoni isolanti.

Vi sono, poi, dei materiali che presentano caratteristiche intermedie, e per questo vengono definiti semiconduttori.

Una caratteristica dei buoni conduttori è il fatto che la resistività aumenta con l’aumentare della temperatura.

Si può dimostrare sperimentalmente che sussiste la seguente relazione:

$ ρ = ρ_0 * (i + α_0 T)$

dove si indica con ρ la resistività del conduttore alla temperatura T, mentre con  ρ0 la sua resistività alla temperatura di 0°C; il coefficiente  $α_0$  si definisce coefficiente di temperature della resistività relativo alla temperatura di 0°C.

Per altri tipi di materiali, l’aumento della temperatura genera altri effetti; ad esempio, per i semiconduttori la resistività diminuisce all’aumentare della temperatura.

Per un’altra categoria di materiali, invece, la diminuzione della temperatura, fino al raggiungimento della temperatura critica, fa si che la resistività diminuisca fino a raggiungere valori praticamente nulli; questi tipi di materiali vengono definiti superconduttori.

Una delle caratteristiche più importanti dei superconduttori è il fatto che in essi non avviene l’effetto Joule, in quanto se la resistività è nulla, si annulla anche la resistenza. Gli elettroni che formano la corrente elettrica, una volta messi in moto, continuano a muoversi anche se non è presente alcun generatore, e possono continuare a circolare anche per lunghe distanze senza disperdere energia.

 

Esercizio

Consideriamo un filo conduttore di rame lungo 92 cm, con un diametro di 0,18 mm, collegato ad un generatore di tensione che mantiene una differenza di potenziale di 1,2 V. E’ noto che il rame ha una resistività pari a  $1,7 * 10^-8 Ω * m$; calcolare l’intensità della corrente elettrica anche attraversa il filo.

Per risolvere il problema possiamo utilizzare la seconda legge di Ohm, e determinare così la resistenza del conduttore.

I dati che ci occorrono sono: la lunghezza del filo, che espressa in metri vale 0,92 m, la resistività, fornita dal problema, e l’area della sezione trasversale. Supponendo che il filo abbiamo una forma circolare, e avendo il diametro di tale sezione, possiamo determinare la sua area:

$ A = πr^2 = π * (frac(0,18)(2) mm )^2 = π * (0,09 * 10^(-3) m )^2 = 0,025 * 10^(-6) m^2$

A questo punto abbiamo tutti i dati necessari per applicare la seconda legge di Ohm e determinare la resistenza:

$ R = ρ * l/A = 1,7 * 10^(-8) Ω * m * frac(0,92 m)(0,025 * 10^(-6) m^2) = 62,56 10^(-2) Ω$

Possiamo calcolare ora l’intensità di corrente che attraversa il conduttore come rapporto della differenza di potenziale ai suoi capi sulla resistenza:

$ i = frac(∆V)(R) = frac(1,2 V)(0,6256 Ω) = 1,92 A $

 

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La conduzione elettrica nei metalli

Analizziamo il processo di conduzione di elettricità nei metalli dal punto di vista microscopico.

Un solido metallico è formato da un reticolo molto ordinato e regolare, costituito da ioni positivi, cioè atomi che sono stati privati di uno o più elettroni esterni. All’interno di questo reticolo sono liberi di muoversi gli elettroni che sono sfuggiti agli atomi, e che vengono definiti elettroni di conduzione.

A causa del loro moto caotico, essi vengono spesso paragonati alle molecole di un gas, e per questo si parla spesso di “gas di elettroni”, o “mare di elettroni”.

 

conduzione-elettrica-metalli

 

In generale, quando un conduttore è neutro, gli elettroni sono liberi di muoversi nel reticolo, e con il loro moto caotico urtano gli ioni positivi; tuttavia, poiché essi si muovono disordinatamente in tutte le direzioni, il loro spostamento medio può essere considerato nullo.

Quando, invece, il conduttore viene collegato ad un generatore di corrente, il moto degli elettroni al suo interno non è più completamente caotico; al moto disordinato che avviene naturalmente, infatti, si aggiunge il moto generato dal campo elettrico; questo spinge gli elettroni verso il polo positivo, nella direzione opposta a quella in cui agisce il campo elettrico.

La sovrapposizione di questi due moti fa si che anche il numero degli urti che avvengono tra elettroni e ioni positivi aumenti; questi urti possono rallentare il moto degli elettroni, che quindi perdono parte della loro energia cinetica.

L’energia, però, viene trasmessa agli ioni positivi, che la immagazzinano sotto forma di energia termica, ossia calore.

Questo ragionamento fornisce una spiegazione dal punto di vista microscopica dell’effetto Joule; l’energia termica che si immagazzina negli ioni positivi, infatti, è responsabile dell’aumento di temperatura del conduttore.

In ogni punto del reticolo ciascun elettrone possiede una determinata velocità istantanea, che varia da punto a punto, ed è diversa dalle velocità di tutte le particelle; il moto degli elettroni è molto complicato, e sarebbe praticamente impossibile determinare la velocità istantanea in ogni punto del percorso di tutte le particelle.

Per questo, per studiare il moto degli elettroni, si introduce la velocità di deriva, una misura della velocità media degli elettroni nel conduttore.

Si può dimostrare che, se nel conduttore circola corrente elettrica, l’intensità della corrente è direttamente proporzionale alla velocità di deriva, e data dalla seguente formula:

$ i = e * n * A * v_d $

dove con e si indica la carica elementare, cioè quella dell’elettrone; con n si indica il numero degli elettroni presenti per unita di volume (valore noto, che varia in base al tipo di conduttore); A indica l’area di una sezione circolare del filo conduttore; $v_d$  è la velocità di deriva.

 

Esercizio

Consideriamo un filo conduttore di argento, diametro di 0,40 mm,  in cui circola una corrente elettrica di intensità 0,50 A. L’argento contiene in media $5,8 * 10^28$  elettroni di conduzione per metro cubo. Determinare la velocità di deriva degli elettroni.

La velocità di deriva richiesta dal problema è ottenibile dalla formula vista precedentemente, dalla quale si ricava che:

$ i = e * n * A * v_d       to      v_d = frac(i)(e * n * A)$

I dati che ci occorrono, quindi, per la risoluzione del problema sono l’intensità di corrente elettrica, il numero di elettroni di conduzione, forniti nei dati, la carica dell’elettrone, che ricordiamo essere:

$ e = 1,6022 * 10^(-19) C$

e l’area della sezione trasversale; quest’ultimo dato può essere ricava a partire dal diametro del filo conduttore:

$ A = πr^2 = π * (frac(0,40)(2) mm )^2 = π * (0,20 * 10^(-3) m)^2 = 0,126 * 10^(-6) m^2 $

Possiamo, quindi, applicare la formula, e determinare così la velocità di deriva richiesta:

$v_d = frac(i)(e * n * A) = frac(0,5)( 1,6022 * 10^(-19) * 5,8 * 10^28 * 0,126 * 10^(-6)) = 0,43* 10^(-3) m/s$

 

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Processo di carica e scarica di un condensatore

Come sappiamo, un condensatore è formato da due lastre metalliche parallele, poste ad una distanza d l’una dall’altra.

Inizialmente le armature sono messe a terra, ossia possiedono carica nulla, e sono neutre.

Esaminiamo, ora, come avviene il processo di carica del condensatore e, successivamente, quello di scarica di esso.

 

Processo di carica

Per caricare un condensatore si comincia da una sola armatura, che viene collegata ad un generatore di corrente; l’altra armatura, invece, continua ad essere messa a terra.

Il generatore di tensione sottopone l’armatura ad una certa differenza di potenziale ∆V, cosicché la carica finale registrata sulla piastra sarà data da Q = C∆V.

Tuttavia, la carica Q non viene raggiunta immediatamente, ma solo dopo un certo intervallo di tempo; mentre inizialmente si ha un’intensità di corrente particolarmente elevata, con l’aumentare della carica sull’armatura, aumenta anche la forza di repulsione tra le cariche dello stesso segno, e di conseguenza aumenta il lavoro che deve compiere il generatore contro le forze elettriche repulsive. Quindi, il flusso delle cariche elettriche sull’armatura diventa sempre più lento, fino ad esaurirsi completamente al raggiungimento del valore massimo, ossia della carica Q.

E’ possibile esprimere la carica istantanea presente sull’armatura del condensatore, in funzione del tempo, tramite la seguente formula:

$q(t) = Q(1-e^(-frac(t)(RC)))$

dove Q indica la carica massima raggiunta, R la resistenza elettrica del circuito, e C la capacità del condensatore.

Notiamo, quindi, che all’aumentare del tempo la carica sul condensatore è sempre più grande, e si avvicina sempre di più al valore Q.

E’ possibile, inoltre, determinare anche l’intensità di corrente istante per istante; anch’essa ha una andamento esponenziale, ed è data dalla formula:

$i = frac(f_(em))(R)*e^(- frac(t)(RC))$

In questo caso, si suppone che il generatore sia ideale, cioè che la resistenza interna del generatore sia trascurabile; in questo modo la divergenza di potenziale che esso genera è uguale alla forza elettromotrice.

 

Processo di scarica

Anche nel caso del processo di scarica del condensatore, la carica Q raggiunta non viene eliminata tutta istantaneamente;

la legge che descrive la quantità di carica presente sull’armatura in funzione del tempo è data dalla formula:

$q(t) = Q * e^(- frac(t)(RC))$

notiamo, quindi, che all’aumentare del tempo la carica sul condensatore è sempre più piccola.

L’intensità di corrente durante questo processo ha la stessa espressione di quella precedente; infatti, anche in questo caso, inizialmente si ha una corrente piuttosto intensa, che però diminuisce di intensità a mano a mano che le cariche elettriche sulle armature diminuiscono.

 

Energia e lavoro 

Nel processo di carica del condensatore, il generatore deve compiere lavoro contro la forza repulsiva delle cariche elettriche dello stesso segno; come sappiamo, il lavoro compiuto dal condensatore può essere espresso dalla seguente formula:

$W_C = 1/2 frac(Q^2)(C)$

dato che possiamo esprimere la carica Q come prodotto della capacità per la differenza di potenziale, la formula diventa:

$W_C = 1/2 frac(Q^2)(C) = 1/2 * C(f_(em) ^2)$

Il lavoro che compie il generatore quando trasporta la carica presente sull’armatura positiva, da un polo ad un altro si esprime come prodotto di Q per ∆V, e quindi è dato da:

$ W_G = Q * ∆V = C(f_(em) ^2)$

Notiamo, quindi, che il lavoro di carica del condensatore ($W_C$) è la metà del lavoro compiuto dal generatore ($W_G$).

Dato che ciascun lavoro compiuto viene trasformato in energia, che viene poi immagazzinata nel condensatore, per il principio di conservazione dell’energia, necessariamente vi deve essere una parte di energia, pari a

$1/2 W_G = 1/2 C(f_(em) ^2)$

che viene dissipata sotto forma di calore per effetto Joule.

Quando il condensatore è carico, l’energia presente su di esso è pari a:

$1/2 W_G = 1/2 C(f_(em) ^2)$

Quando il condensatore viene scaricato, la corrente che passa all’interno del circuito, e attraversa la resistenza R, trasforma l’energia elettrica in calore per effetto Joule. Di conseguenza, alla fine del processo, tutta l’energia immagazzinata viene dissipata in calore sulla resistenza R.

 

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Estrazione di elettroni dai metalli

Come sappiamo, nei metalli gli elettroni sono liberi di muoversi, mentre le cariche positive rimangono ferme in determinate posizioni.

Nonostante, però, gli elettroni siano liberi di muoversi all’interno del conduttore, essi non possiedono l’energia sufficiente per fuoriuscirne.

La presenza di cariche positive, fa si che gli elettroni mi movimento siano sottoposti ad una serie di forze di natura elettrica. Quando l’elettrone si trova all’interno del metallo, però, la presenza di protoni distribuiti nello spazio circostante fa si che la risultante delle forze che agisce su ogni elettrone è nulla.

Quando, però, l’elettrone si trova sulla superficie del metallo, questo equilibrio di forze viene a mancare, in quanto, mentre è attratto verso l’interno dalle cariche positive, all’esterno della superficie metallica non vi sono altre forze che compensano.

Di conseguenza, l’elettrone che si trova sulla superficie del conduttore è attratto verso il suo interno.

Per questo, se si vuole estrarre l’elettrone da tale superficie, occorre esercitare un lavoro contro la forza elettrica che lo spinge verso l’interno.

Si definisce, quindi, il lavoro di estrazione come l’energia minima che occorre fornire per estrarre un elettrone da un metallo.

Quando si fornisce energia ad un elettrone, in qualunque modo essa venga fornita, si sottopone l’elettrone ad una differenza di potenziale; tale differenza di potenziale prende il nome di potenziale di estrazione, ed è tale per cui l’elettrone acquista una quantità di energia pari al lavoro di estrazione.

Possiamo, quindi, definire il potenziale di estrazione come il rapporto tra il lavoro di estrazione e la carica elementare:

$ V_e = frac(W_e)(e)$

Il lavoro di estrazione viene misurato in elettronvolt (eV), e corrisponde alla quantità di energia acquistata da un elettrone quando questo viene sottoposto ad una differenza di potenziale di 1V.

L’ energia che viene fornita al metallo per permettere agli elettroni di staccarsi dalla sua superficie, può essere trasmessa in modi diversi, e in base a questo si parla di effetti diversi; vediamo in particolare l’effetto termoionico e l’effetto termoelettrico.

 

L’effetto termoionico

L’effetto termoionico consiste nell’estrazione di elettroni dalla superficie di un metallo mediante riscaldamento del metallo.

Fornendo calore al conduttore, infatti, parte del calore fornito si trasforma in energia interna del metallo, ovvero si ha un aumento dell’energia cinetica degli elettroni al suo interno.

Quando gli elettroni assumono un’energia maggiore del lavoro che occorrerebbe fare per estrarli, allora essi potrebbero essere in grado di lasciare la superficie metallica.

Non tutti gli elettroni con una tale quantità di energia, però, son in grado di fuoriuscire dal metallo; infatti, possono essere estratti solo quelli che si trovano in prossimità della superficie e che si stanno muovendo nel verso uscente da essa.

 

L’effetto fotoelettrico

L’effetto fotoelettrico consiste nell’emissione di elettroni dalla superficie metallica mediante irraggiamento del metallo con radiazione elettromagnetica, ossia mediante illuminazione con luce visibile o ultravioletta.

Come sappiamo, la luce trasporta energia, che non è distribuita in maniera uniforme all’interno dell’onda, ma è concentrata in piccoli pacchetti (quanti) detti fotoni.

Quando un fascio di luce investe la superficie del metallo, i fotoni dell’onda vengono trasferiti alla superficie metallica, e ciascuno di essi interagisce con un singolo elettrone, trasferendo ad esso la propria energia.

L’energia trasportata da ogni fotone è data dalla formula E = hv, dove h è la costante di Planck, mentre v è la frequenza della radiazione.

Anche in questo caso, quando gli elettroni acquistano un’energia maggiore al lavoro di estrazione, essi sono in grado di abbandonare la superficie metallica.

 

effetto-fotoelettrico

 

In particolare, notiamo che per estrarre una quantità maggiore di elettroni dalla superficie metallica è necessario aumentare l’intensità della luce che colpisce tale superficie; infatti, questo aumento fa si che una maggior numero di fotoni colpisca la superficie metallica in un indeterminato intervallo di tempo; ciò implica che vi sia un maggior numero di elettroni ad interagire con i fotoni, ricevendo quindi l’energia da essi trasportata.

 

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Le leggi di Volta

Prima legge

L’effetto volta è un particolare fenomeno che si nota quando due metalli vengono messi a contatto; il fenomeno prende questo nome dal nome del fisico italiano Alessandro Volta che notò per primo questi effetti agli inizi dell’ottocento.

Quando due metalli vengono messi in contatto tra loro, si instaura tra essi una differenza di potenziale che è numericamente pari alla differenza tra i rispettivi lavori di estrazione, cambiata di segno.

Questa affermazione rappresenta anche la prima delle tre leggi di Volta; va notato che i metalli in questione devono avere la stessa temperatura, e che la differenza di potenziale che si instaura dipende dalla natura dei metalli e dalle loro caratteristiche fisiche; esso è invece indipendente dall’area della superficie che viene messa in contatto e dalla sua forma.

 

Esempio

Vediamo un esempio pratico; consideriamo un conduttore come il rame, e rappresentiamo la situazione che si crea all’interno del metallo. Come sappiamo, la posizione delle cariche positive è praticamente fissa, mentre gli elettroni sono liberi di muoversi nello spazio. Gli elettroni, quindi, possono venire a trovarsi sulla superficie del metallo e, in un certo istante di tempo, possono formare una barriera negativa.

Ipotizziamo, ora, di mettere a contatto con il rame un altro conduttore in cui si presenta la stessa situazione; consideriamo ad esempio lo zinco.

Le due barriere di cariche negative, quindi, si trovano a contatto l’una con l’altra.

Poiché il rame è più elettronegativo dello zinco, esso tende ad attirare a sé gli elettroni che formano la barriera dello zinco, cosicché gli elettroni di quest’ultimo vengono strappati e ceduti all’altro. Il risultato è che lo zinco si carica positivamente, mentre il rame si carica negativamente.

Possiamo descrivere il fenomeno anche da un altro punto di vista, considerando il potenziale di estrazione dei due metalli. In questo caso, il potenziale di estrazione del rame è maggiore del potenziale di estrazione dello zinco;  ciò significa che gli elettroni che si trovano nel primo metallo sono più legati e meno liberi di muoversi di quelli del secondo.

Vi è, quindi, il passaggio di elettroni dallo zinco al rame finché non si instaura una differenza di potenziale che tenderebbe a far muovere gli elettroni in senso inverso, cioè dal rame allo zinco.

 

prima-legge-di-volta

 

 

Seconda legge

La seconda legge di Volta riguarda conduttori che sono uniti tra loro a formare una catena (aperta); in questo caso è stato provato che la differenza di potenziale tra i due metalli più estremi è la stesa che si avrebbe se questi fossero uniti tra loro.

Tale legge prende anche il nome di legge dei contatti successivi.

Da notare che la catena di conduttori deve essere aperta, cioè il primo conduttore deve essere diverso dall’ultimo; altrimenti, se la catena fosse chiusa, il primo conduttore sarebbe uguale all’ultimo, e così la differenza di potenziale agli estremi della catena sarebbe nulla.

Sulla base di questa legge fu possibile realizzare la cosiddetta “pila di volta”, costituita da una serie di conduttori di prima e seconda specie collegati tra loro; la differenza di potenziale ai capi della pila crea una corrente elettrica tale che il flusso delle cariche è costante e controllato.

 

seconda-legge-di-volta

 

Questo apparecchio costituì il primo generatore di tensione che fornisce una corrente elettrica uniforme

 

Terza legge

La terza legge di Volta si basa sulla distinzione tra due classi di conduttori, che vengono definiti di prima e seconda specie.

I conduttori di prima specie quelli per cui è valida la legge dei contatti successivi, come ad esempio i metalli; i conduttori di seconda specie, invece, sono gli altri, come ad esempio delle soluzioni saline diluite.

La terza legge, quindi, afferma che, anche se in una catena chiusa la differenza di potenziale agli estremi è nulla, è possibile intervenire affinché si crei una differenza di potenziale diversa da zero; questo è possibile aggiungendo, all’interno della catena, un conduttore di seconda specie.

 

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Gli effetti termoelettrici

L’effetto Seebeck

L’effetto termoelettrico, in generale, può indicare diversi fenomeni; anche l’effetto Joule, ad esempio, può essere considerato un effetto termoelettrico.

Analizziamo un tipo di effetto termoelettrico che prende il nome dal fisico che lo studiò, e viene definito effetto Seebeck.

Consideriamo una catena chiusa di conduttori formata da due soli metalli. In condizioni normali, vi è passaggio di elettroni da un metallo all’altro a causa della differenza di potenziale che si crea nel punto di contatto.

La scoperta, però, sta nel fatto che è possibile generare un piccolo flusso di corrente elettrica se i punti di contatto dei due metalli sono mantenuti a temperature diverse; ad esempio nel caso in cui una sia calda e l’altra sia fredda.

 

effetto-seebeck

 

 

Infatti, l’energia cinetica delle particelle dipende anche dalla temperatura, ed è direttamente proporzionale ad essa; a temperature maggiori le particelle si muoveranno più velocemente.

Tuttavia, nei due diversi metalli, l’aumento della temperatura genera effetti diversi sull’aumento dell’energia acquisita dalle particelle; di conseguenza, nei due punti di contatto tra i metalli vi sarà un flusso differente di cariche; questo fa si che la distribuzione di cariche elettriche all’interno del circuito non sia uniforme.

Se, però, la differenza di temperatura viene mantenuta costante, è possibile generare un flusso di corrente stazionaria.

L’effetto Seebeck può anche essere sfruttato per misurare una temperatura.

In questo caso vengono utilizzati due fili metallici saldati tra loro alle estremità; delle due congiunzioni una è posta sul corpo di cui si vuole misurare la temperatura, e l’altra a contatto con un corpo che mantiene una temperatura di riferimento.

L’apparecchio così formato prende il nome di coppia termoelettrica, o anche termocoppia.

Dato che il valore della corrente dipende dalle temperature che si trovano alle congiunzioni cel circuito, misurando con un amperometro (inserito in serie nel circuito) in calore dell’intensità di corrente, è possibile risalire al valore della temperatura ignota.

 

L’effetto Peltier

L’effetto Peltier può essere considerato come l’inverso dell’effetto di Seebeck.

Consideriamo un circuito come quello visto precedentemente; ipotizziamo che esso sia attraversato da una corrente elettrica, che attraversa anche le saldature tra i due metalli.

La corrente che circola, passando da un metallo all’altro, raffredda la saldatura che nel caso precedente era calda, e scalda quella che invece era fredda.

Notiamo che anche l’effetto Joule fa si che l’energia elettrica si trasformi in energia interna del conduttore, cioè calore, che aumenta così la sua temperatura.

L’effetto Peltier, però, si differenzia dall’effetto Joule in quanto dipende dalla direzione della corrente, e può riscaldare ma anche raffreddare la giunzione considerata.

 

L’effetto Thomson

Per studiare questo effetto, si considera un conduttore omogeneo in cui le estremità sono poste a temperatura diversa; il conduttore, inoltre, è attraversato da corrente elettrica.

Quando la corrente circola al suo interno, si può avere assorbimento o cessione di calore da parte del conduttore; ciò dipende dai versi di percorrenza della corrente e del flusso termico.

Se i versi di percorrenza sono gli stessi, allora vi sarà una cessione di calore;  se, invece, i versi di percorrenza sono opposti, il calore viene assorbito.

Inoltre, nel caso in cui il conduttore, formato da un unico materiale, sia chiuso, si verranno a sovrapporre due effetti Thomson uguali ed opposti, cosicché essi si annullano l’un l’altro.

 

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La corrente elettrica nei liquidi

La corrente elettrica può circolare, oltre che nei solidi come i metalli, anche nei liquidi, con alcune eccezioni.

Quando si studiano le soluzioni che possono permettere il passaggio di corrente, si utilizza un apparato che prende il nome di cella elettrolitica: esso è costituito da due elettrodi, ossia conduttori metallici collegati ai poli di un generatore, che vengono immersi nella soluzione che si vuole studiare.

 

Le soluzioni elettrolitiche

Come accennato in precedenza, non tutte le soluzioni sono in grado di condurre corrente elettrica.

Ad esempio, se consideriamo una soluzione di acqua distillata, e vi immergiamo due elettrodi connessi ad una pila, non vi sarà passaggio di corrente; la stessa cosa avviene per una soluzione di acqua e zucchero. In questi casi, si parla di soluzioni non elettrolitiche.

La situazione cambia quando si sciolgono in acqua dei sali, delle basi, o degli acidi; queste sostanze, infatti, quando si trovano in acqua liberano ioni positivi o negativi, che possono muoversi all’interno del liquido, e vengono attratti dagli elettrodi posti in esso. Gli elettroni che si muovono nella soluzione, quindi, completano il circuito, e permettono alla corrente di circolare.

In questo caso si parla di soluzioni elettrolitiche, e le sostanze che disciolte nell’acqua per mettono il passaggio di corrente vengono definiti elettroliti.

Le soluzioni elettrolitiche soddisfano la prima legge di Ohm, se la temperatura della soluzione non raggiunge valori troppo elevati.

Vediamo ora in dettaglio come mai alcune sostanze, disciolte in acqua, sono in grado di rendere l’acqua un buon conduttore di corrente.

 

Un sale disciolto in acqua

Analizziamo, ad esempio, il caso in cui la sostanza elettrolita sia un sale; consideriamo il caso più semplice, quello del sale da cucina, ovvero il cloruro di sodio (NaCl).

Gli atomi di questo sale sono legati tra loro, formando molecole, con un particolare tipo di legame, che si definisce legame ionico.

Il nome del legame viene dal fatto che il sale presenta una struttura cristallina molto regolare, formata dall’aggregazione di ioni; sono positivi quelli del sodio e negativi quelli del cloro.

Questi ioni si formano perché vi è il trasferimento di un elettrone dal sodio al cloro (più elettronegativo), in modo che entrambi raggiungano la configurazione stabile dell’ottetto (ultimo orbitale pieno).

La struttura cristallina di per se è moto stabile, tuttavia, l’acqua è in grado di rompere i reticoli formati dalle molecole, e sciogliere così il sale.

Le molecole di acqua, infatti, sono molecole polari, cioè in esse la carica non è distribuita in maniera uniforme, ma è concentrata in maniera differente sugli atomi che le costituiscono, dando luogo a dei dipoli; si avrà, quindi, una parziale carica negativa sugli atomi di ossigeno, e una parziale carica positiva su quelli di idrogeno.

Quando il sale si trova in acqua, le molecole di acqua tendono a schermare la carica elettrica degli ioni.

Gli ioni positivi di sodio vengono circondati dalle molecole di acqua polarizzate, in modo da svolgere verso Na+ la parte negativa, cioè l’atomo di ossigeno; gli ioni di cloro, invece, vengono circondati dalle molecole polarizzate di acqua che rivolgono a Cl- la parte positiva, quella dell’idrogeno.

corrente-nei-liquidi
Struttura microscopica di cristalli cinici e ioni solvatati.

 

In seguito allo sfaldamento delle molecole di sale, all’interno della soluzione rimangono semplicemente gli ioni Na+ e Cl-, che sono liberi di muoversi all’interno di essa.

 

La dissociazione elettrolitica

Quando, poi, nella soluzione sono immersi degli elettrodi (quello positivo si definisce anodo, quello negativo catodo), e si genera corrente, gli ioni sono attratti verso i poli; si crea, così, un moto di cariche elettriche nella soluzione.

 

corrente-nei-metalli
Moto di cariche elettriche generate dalla presenza di elettrodi nella soluzione.

 

Questo fa si che la corrente continui a circolare all’interno del liquido, chiudendo così il circuito generato dalla cella elettrolitica.

La dissociazione di sostanze in acqua, come avviene nel caso del cloruro di sodio, prende i nome di dissociazione elettrolitica.

 

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L’elettrolisi e le leggi di Faraday

Con elettrolisi si intende l’insieme di fenomeni legati alle soluzioni elettrolitiche in seguito al passaggio di corrente elettrica.

In alcuni casi, ad esempio, si può avere la formazione di gas, oppure la formazione di un corpo solido sugli elettrodi.

Quando gli elettrodi, inseriti all’interno della soluzione, producono corrente elettrica, gli ioni presenti in soluzione vengono attratti verso gli elettrodi di segno opposto, sotto l’azione del campo elettrico che si genera.

Quando gli ioni giungono al rispettivo catodo, essi si trasformano in atomi neutri: lo ione positivo, che giunge al catodo, acquista degli elettroni, pari al suo numero di valenza; lo ione negativo, invece, giunto all’elettrodo positivo, l’anodo,cede degli elettroni, pari al suo numero di valenza, e si trasforma pertanto in un atomo neutro.

Può capitare che gli atomi neutri che si vengono a formare si depositino sul rispettivo elettrodo; è possibile determinare la massa dei depositi che si formano a partire dalla carica elettrica che passa attraverso gli elettrodi, e al tipo di ione considerato.

 

Le leggi di Faraday

Le leggi di Faraday esprimono come sia possibile produrre, attraverso l’elettrolisi, una determinata quantità di sostanza.

La prima legge di Faraday afferma che la quantità di materia che viene prodotta nel processo di elettrolisi è direttamente proporzionale alla quantità di corrente che ha attraversato la cella elettrolitica.

Si può dimostrare che la massa della sostanza che si crea in un elettrodo è data dalla seguente formula:

$ M = frac(M_A)(N_A * z * e) * Q$

dove con Ma si indica la massa di una mole della sostanza liberata, con Na il numero di Avogadro, con e la carica elementare (cioè quella dell’elettrone), con Q la quantità di carica che giunge nell’elettrodo, e con z il numero di valenza, cioè il valore della carica, in modulo, posseduta dallo ione.

La seconda legge di Faraday riguarda la quantità di massa che viene prodotta nelle soluzioni elettrolitiche nel caso in cui più soluzioni elettrolitiche vengano messe a confronto.

Per soluzioni diverse, infatti, la stessa quantità di carica che passa negli elettrodi produce masse diverse di sostanze, che dipendono dalle proprietà degli elementi che si trovano in soluzione.

La seconda legge, quindi, afferma che nel caso di sostanze diverse, la stessa quantità di carica, produce agli elettrodi masse di sostanze direttamente proporzionali ai rispettivi equivalenti chimici.

Per equivalente chimico si intende il rapporto tra il peso atomico o molecolare della sostanza e il numero di valenza della sostanza stessa.

La seconda legge di Faraday può essere messa in luce anche dalla formula della prima legge, scritta nella forma seguente:

$M = frac(Q)(N_A * e) * frac(M_A)(z)$

dove il secondo fattore, cioè il rapporto Ma/z indica appunto l’equivalente chimico.

 

Esercizio

Consideriamo una celle elettrolitica in cui la soluzione disciolta in acqua è il solfato di rame (CuSO4); la carica che passa per gli elettrodi è pari a 500 C; determinare la quantità di rame che si deposita su uno dei due elettrodi.

Per risolvere il problema, dobbiamo conoscere come avviene la dissociazione elettrolitica del sale; in questo caso, si formano degli ioni di rame positivi ($Cu^(++))$  e degli ioni solfato negativi ($SO_4^(—))$.  Di conseguenza, la valenza del rame è z=2, pari al doppio della carica dell’elettrone, in modulo.

Dalla tavola periodica, possiamo risalire alla massa molecolare della sostanza, a partire dai pesi atomici dei singoli elementi: una mole di rame ha massa 63,55 g/mol.

Il valore della massa molecolare è, quindi:

$M_A = 63,55 g/(mol) $

Per applicare la formula della prima legge di Faraday, ricordiamo che il numero di Avogadro vale  $N_a=6,022 * 10^23 mol^(-1) $ ; la carica elementare, cioè quella dell’elettrone, vale  $e=1,60 * 10^(-19) C $.

Possiamo procedere, quindi, applicando la formula e determinando la quantità di massa richiesta:

$M = frac(Q)(N_A * e) * frac(M_A)(z)$

$M = frac(500 )(6,022 * 10^23 * 1,60 * 10^(-19)) * frac(63,55)(2) = 1648 * 10^(-4) g = 0,165 g $

Il processo elettrolitico, quindi, porta alla formazione di 0,165g di rame depositato su uno dei due elettrodi.

 

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Le pile

Le pile, o celle elettrolitiche, sono generatori di tensione che sfruttano soluzioni elettrolitiche per compiere lavoro; esse utilizzano l’energia potenziale chimica delle soluzioni per produrre energia elettrica.

Le soluzioni utilizzate sono poste in due recipienti diversi, collegati tra loro da un ponte salino, oppure divisi divisi da una membrana semipermeabile, che permette solo il passaggio di determinate sostanze; all’interno delle soluzioni, poi, sono poste delle lamine metalliche, gli elettrodi.

A differenza delle celle elettrolitiche, in questo caso il polo negativo viene detto anodo, mentre quello positivo si dice catodo.

Esaminiamo il funzionamento delle pile con un esempio pratico.

Consideriamo una soluzione liquida di solfato di rame, in cui viene immersa una barretta di zinco. Dopo un certo periodo di tempo, la barretta si ricopre di uno strato di rame metallico, assumendo così un colore rossiccio; la temperatura della soluzione, inoltre, risulta aumentata.

La situazione può essere spiegata in termini chimici, parlando di reazioni di ossido-riduzione, nelle quali una specie chimica acquista elettroni, mentre l’altra li cede.

In questo caso, lo zinco si ossida e cede due elettroni al rame, mentre quest’ultimo si riduce acquistando due elettroni (e diventando, così, uno ione positivo).

La reazione chimica, in questo caso, avviene spontaneamente, e pertanto vi è una produzione di calore; la reazione, quindi, si dice esotermica.

La pila, quindi, sfrutta le reazioni di ossido-riduzione per trasformare l’energia chimica della reazione spontanea in energia elettrica. Il suo funzionamento, però, prevede che le due reazioni, quella di ossidazione e quella di riduzione, avvengano separatamente.

Si posizionano, in questo caso, una barretta di zinco in una soluzione di solfato di zinco, e una barretta di rame in una soluzione di solfato di rame.

Le due soluzioni, poi, vengono collegate con un ponte salino, che permette solo il passaggio di determinate sostanze, che non influenzino le reazioni di ossidoriduzione; queste sostanze permettono di ristabilite un equilibrio delle cariche, trasportando elettroni da una soluzione all’altra.

Le barrette metalliche, invece, sono collegate da un filo conduttore, che permette il passaggio degli elettroni; in questo caso, lo zinco perde elettroni e la barretta di zinco si assottiglia; il filo conduttore permette il passaggio degli elettroni da una soluzione all’altra, e nella seconda, gli elettroni vengono acquistati dal rame, cosicché la barretta di rame diventa più spessa.

 

pile
Pila zinco-rame

 

Le pile a secco

Le cosiddette “pile a secco” sono un particolare tipo di pila, definite in questo modo perché la pila di Volta, la prima pila inventata, era costituita da una serie di dischi di rame e zinco separati tra loro da un panno inumidito imbevuto di un conduttore elettrolitico.

Le pile a secco, invece, sono ad esempio le pile in zinco-carbone, le classiche pile di uso quotidiano.

Queste pile sono costituite da un rivestimento di zinco all’interno del quale sono presenti, in ordine, una soluzione elettrolitica, uno strato di diossido di manganese, e un cilindro di grafite.

 

 

pila-a-secco
Pila a secco

 

Il funzionamento di queste pile si basa sempre su reazioni di ossidoriduzione; lo zinco tende a perdere elettroni, che vengono attratti nella soluzione elettrolitica, concentrata in uno dei due estremi della pila; a causa dell’eccesso di elettroni presenti, questa parte diventerà il polo negativo della pila. Il carbone, invece, tende a cedere elettroni al diossido di manganese, cosicché l’altro estremo diviene il polo positivo.

 

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La corrente elettrica e i gas

I gas, come sappiamo, presentano caratteristiche fisiche molto differenti rispetto a solidi e liquidi, a partire dal fatto che le particelle di un gas sono completamente libere di muoversi nel volume disponibile, e sono molto distanti le une dalle altre rispetto gli altri stati di aggregazione.

Le diverse caratteristiche dei gas fanno si che anche dal punto di vista della conducibilità elettrica i gas si comportino in maniera differente rispetto a solidi e liquidi.

 

Condizioni di buona conducibilità per i gas

In condizioni normali, infatti, un gas che non riceve influenze esterne non è in grado di generare corrente, ed è pertanto considerato un isolante.

Tuttavia, è possibile rendere anche i gas dei conduttori di corrente facendo in modo che le loro molecole vengano ionizzate da alcuni fattori esterni; i principali metodi consistono nel bombardare il gas con radiazioni elettromagnetiche, come raggi x, raggi gamma, o ultravioletti.

Altrimenti, la vicinanza del gas a sostanze radioattive espone le molecole del gas ad un flusso di particelle, come elettroni o protoni, che colpendo queste molecole riescono a ionizzarle.

In seguito a questo processi, gli atomi del gas vengono ionizzati; quando il gas viene bombardato da una radiazione, infatti, i fotoni provenienti da essa forniscono l’energia necessaria agli elettroni per potersi distaccare dagli atomi, rendendoli così degli ioni positivi; questi elettroni, poi, possono essere acquistati da altri atomi, che si trasformano in ioni negativi.

La presenza di elettroni liberi fa si che sia possibile il passaggio di corrente anche attraverso un gas.

Tuttavia, la conduzione di corrente elettrica attraverso un gas non segue le stesse leggi che si hanno per conduttori solidi e liquidi.

 

La corrente elettrica e i gas

E’ stato provato sperimentalmente, che l’intensità di corrente che attraversa il gas non è direttamente proporzionale alla differenza di potenziale cui viene sottoposto.

L’esperimento consiste nel porre un gas all’interno di un tubo all’interno di un circuito, in presenza di un generatore, una resistenza variabile ed, eventualmente, misuratori di voltaggio e intensità di corrente.

Il tubo, quindi, è collegato al circuito mediante  due elettrodi metallici, a cui viene applicata una certa differenza di potenziale.

Facendo variare la resistenza, e misurando diversi valori di intensità di corrente e differenza di potenziale, è stato osservato che la relazione tra differenza di potenziale e intensità di corrente segue delle leggi particolarmente complesse, e che variano da caso a caso.

Per questo motivo, si conclude che per i gas (qualunque sia la loro composizione e la pressione cui sono sottoposti all’interno del tubo) non vale la prima legge di Ohm.

 

Le scintille luminose

Per i gas attraversati da corrente elettrica si verifica un particolare effetto; l’energia potenziale elettrica che si crea in seguito al passaggio di corrente si manifesta sotto forma di luce, dando luogo a delle scintille luminose.

In un gas sottoposto a radiazione elettromagnetica sono presenti sia ioni positivi, che ioni negativi, che atomi neutri.

Il campo elettrico che si genera a causa delle cariche elettriche presenti fa si che venga creato anche un campo elettrico responsabile del moto delle particelle. Gli ioni, quindi, acquistano energia cinetica, e si muovono a grande velocità; le possibilità di urti con altre particelle, quindi, sono particolarmente elevate.

Quando ciò accade, parte dell’energia cinetica dello ione viene trasferita all’altra particella; nel caso di un atomo neutro, ad esempio, questo acquista energia, e viene eccitato (cioè un elettrone presente nell’atomo “salta” su un orbitale ad energia maggiore).

Successivamente, quando l’atomo torna nello stato fondamentale (l’elettone torna nel livello energetico di partenza) l’energia acquisita viene rilasciata dall’atomo mediante l’emissione di un fotone.

La presenza dei fotoni emessi da un gran numero di atomi contemporaneamente genera il fenomeno della scintilla luminosa.

 

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I raggi catodici

I raggi catodici sono costituiti da un flusso di elettroni che vengono emessi da un catodo a causa del bombardamento dello stesso da parte di ioni positivi, e accelerati da un anodo.

Il fenomeno dei raggi catodici venne scoperto verso la fine dell’ottocento; la spiegazione degli effetti che essi producono è basata sul fatto che quando gli ioni positivi presenti in un gas colpiscono un anodo, essi gli cedono energia, cosicché gli elettroni fuoriescono dal metallo, e vengono convogliati verso l’anodo.

Studi più recenti hanno mostrato che i raggi catodici possono essere osservati in un particolare strumento, chiamato appunto tubo a raggi catodici.

Il tubo è costituito da un involucro di vetro chiuso, all’interno del quale è posto, ad un’estremità, un catodo; all’interno del tubo vi è il vuoto, cosicché gli elettroni siano liberi di muoversi liberamente sotto l’effetto del campo elettrico. All’altra estremità è posto uno schermo costituito da materiale fluorescente che, colpito dal fascio di elettroni, emette fotoni, e quindi si illumina.

 

raggi-catodici
Il tubo a raggi catodici

 

Gli elettroni che vengono emessi dal catodo, reso incandescente, vengono accelerati da una serie di griglie a potenziale positivo, per poi passare attraverso un anodo che focalizza il fascio, in modo da renderlo di forma rettilinea. L’intera struttura prende il nome di cannone elettronico.

Gli esperimenti, e le conoscenze odierne, mettono in mostra che gli elettroni vengono emessi dal catodo ad alta temperatura per effetto termoionico, e non solo a causa del bombardamento da parte di ioni positivi.

Il fascio di elettroni che passa attraverso il foro nell’anodo, quindi, viene convogliato verso l’estremità del tubo che presenta lo schermo fluorescente, dove viene visualizzato sotto forma di puntino luminoso.

Come abbiamo visto nel caso del condensatore, il raggio catodico ha direzione rettilinea solo nel caso in cui le forze che agiscono su ogni singolo elettrone si bilancino tra loro, cosicché la risultante di esse sia nulla.

In alcuni dispositivi, però, è necessario creare un fascio di elettroni che sia deviato rispetto all’orizzontale; vediamo alcuni esempi.

 

I monitor

Nei televisori e nei monitor dei computer di vecchia generazione era sfruttato un tubo a raggi catodici per creare le immagini sullo schermo.

Nel tubo è presente il cannone a elettroni che, nel caso di particolari monitor detti CRT, emette tre fasci di elettroni, uno per ciascun colore primario, ovvero rosse verde e blu.

Nello schermo si trovano tre tipi di fosfori che, quando vengono colpiti dagli elettroni, emettono fotoni, e quindi producono un effetto di luce visibile; ciascuno di essi emette una luce di colore diversa, rossa verde o blu.

Gli elettroni, quindi, devono essere deviati affinché colpiscano tutta la superficie del pannello e, in questo caso, la deviazione è dovuta alla modulazione delle forze magnetiche.

 

Gli oscilloscopi

Nel caso, invece, di alcuni strumenti come gli oscilloscopi, che servono per monitorare l’andamento di una determinata grandezza fisica in funzione del tempo, il fascio di elettroni viene deviato per mezzo della modulazione di forze elettriche; in particolare, la deviazione del fascio è dovuta alla presenza di un condensatore piano; quando l’elettrone passa attraverso le due armature del condensatore, subisce l’influsso delle linee di campo del condensatore, cosicché la sua traiettoria subisce una deviazione, e assume la forma di un moto parabolico.

In base al valore della differenza di potenziale tra le armature è possibile variare la posizione di fuoriuscita del fascio, così da indirizzare il puntino luminoso del fascio catodico in qualsiasi punto dello schermo.

 

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Il campo magnetico

I magneti

I magneti sono degli oggetti che possiedono la capacità di attrarre altri oggetti, se essi sono di ferro.

I magneti possono essere di due tipi, naturali o artificiali.

Il primo magnete che fu scoperto era costituito da magnetite, ed era un magnete naturale; in particolare, la magnetite ha la capacità di rendere dei magneti degli oggetti che altrimenti non lo sarebbero; ad esempio, mettendo a contatto una sbarretta di ferro con un pezzo di magnetite, la barretta acquisisce la capacità di attrarre altri oggetti di ferro.

In questo caso, la barretta di ferro è diventata un magnete a sua volta; per questo si definisce magnete artificiale, o anche calamita.

Diverse sostanze possono essere magnetizzate in questo modo, ad esempio il ferro, il nichel, l’acciaio; tali sostanze vengono definite ferromagnetiche.

Tra le caratteristiche dei magneti vi è il fatto che ciascun magnete possiede due poli, il polo nord e il polo sud; avvicinano due magneti tra loro, essi possono attrarsi o respingersi: se avviciniamo  due poli dello stesso tipo, essi si respingono:

 

poli-magnetici
I poli magnetici dello stesso tipo si respingono.

 

mentre poli diversi si attraggono:

 

poli-magnetici
I poli magnetici diversi si attraggono.

 

 

Il campo magnetico terrestre

Tra i magneti più grandi e più importanti con cui abbiamo a che fare vi è quello terrestre; la Terra, infatti, costituisce un grande magnete, caratterizzato da un polo sud magnetico in corrispondenza del polo nord geografico, mentre in corrispondenza del polo sud geografico vi è un polo nord magnetico.

Considerando la Terra come un magnete, quindi, si parla di campo magnetico terrestre in riferimento agli effetti che esso crea sui magneti e i corpi che si trovano sulla sua superficie e in sua vicinanza.

Una delle principali prove della presenza del campo magnetico terrestre è il funzionamento delle bussole.

Le bussole sono costituite da un ago magnetico capace di ruotare attorno ad un perno, posto nel suo centro. Di conseguenza, l’ago può ruotare, orientando il suo nord magnetico il corrispondenza del sud magnetico terrestre, ovvero verso il polo nord geografico.

 

ago-magnetico
La bussola utilizza un ago magnetico per determinare il nord geografico.

 

Così come nel caso del campo elettrico, anche per il campo magnetico è possibile individuare direzione e verso del campo.

Per farlo, si considera un ago magnetico, considerato un magnete di prova, cioè abbastanza debole da non modificare il campo magnetico circostante.

L’ago magnetico, come all’interno di una bussola, può ruotare attorno al proprio centro; una volta che l’ago magnetico si sarà fermato nella posizione di equilibrio, esso fornirà le informazioni riguardo direzione e verso del campo magnetico.

La direzione del campo magnetico è quella su cui giace la retta che unisce il polo nord e il polo sud dell’ago; la direzione, invece,  è data dal verso che va dal polo sud al polo nord.

 

Le linee di campo

Come nel caso del campo elettrico, anche per il campo magnetico possiamo rappresentare l’andamento del campo attraverso delle linee.

Le linee di campo sono più dense dove il campo magnetico è più intenso; la loro direzione segue quella del campo magnetico (cioè sono uscenti dai poli nord e entranti nei poli sud); esse sono tangenti in ogni punto alla direzione del campo magnetico.

Come già accennato nel caso del campo elettrico, anche se le linee di campo sono una rappresentazione teorica, e non esistono nella realtà; possiamo avere, però, un riscontro pratico della presenza del campo magnetico e delle linee di campo grazie ad un esperimento.

Ponendo della limatura di ferro sopra un foglio di carta, e al di sotto  di esso una calamita, notiamo che la limatura di ferro si orienterà nella direzione del campo magnetico generato; la limatura, quindi, disegna delle linee che si accumulano sui poli della calamita, disponendosi a raggiera lungo il campo, con densità minore mano a mano che ci si allontana dai poli.

 

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Confronto tra campo elettrico e campo magnetico

Il campo elettrico e il campo magnetico hanno caratteristiche simili, e possono influenzarsi l’uno con l’altro.

Per prima cosa, esaminiamo affinità e differenze tra i due diversi fenomeni.

 

Affinità

Vi sono molte caratteristiche che accomunano i campi in questione.

Ad esempio, il campo elettrico e quello magnetico sono entrambi generati da delle forze, quella di Coulomb e quella magnetica; essi si dicono pertanto campi di forze.

Le caratteristiche delle forze in questione fanno si che in entrambi i casi ci possano essere forze attrattive e forze repulsive; in un caso, infatti, esistono de tipi di cariche elettriche, e null’altro due poli magnetici; cariche dello stesso segno si respingono, così come avviene per i poli dello stesso tipo.

La forza elettrica, così come quella magnetica, può essere indotta, cosicché corpi scarichi possono essere elettrizzati e caricarsi (per strofinio, per induzione o per contatto) nel primo caso, e diventare magneti indotti (grazie alla magnetite) nel secondo.

Abbiamo visto, inoltre, che per entrambi si può parlare di linee di campo per descrivere appunto il campo generato.

 

Differenze

Vi sono anche degli aspetti molto importanti che differenziano i due fenomeni.

Ad esempio, nel caso della magnetizzazione di un corpo ferro magnetico non vi è alcun passaggio di poli magnetici dalla calamita al corpo; il semplice contatto della magnetite con esso fa si che anche quest’ultimo diventi un magnete indotto.

Quando elettrizziamo un corpo scarico, ad esempio per contatto con uno carico, invece, vi è una distribuzione di carica tra i due corpi in questione, e una parte della carica del secondo passa al primo.

Inoltre, nel caso di corpi carichi elettricamente, si può verificare che un corpo sia carico positivamente o negativamente; per la magnetizzazione una cosa simile non avviene. In ogni magnete, infatti, è presente sia il polo positivo che quello negativo, e non esiste il caso in cui uno dei due sia isolato.

 

L’esperimento di Oersted

Le caratteristiche dei campi elettrici e magnetici fanno si che i fenomeni si possano influenzare a vicenda.

Ad esempio, il passaggio di corrente elettrica in un conduttore può generare un campo magnetico.

Questo esperimento fu condotto da Hans Christian Oersted, che pose un filo conduttore al di sopra di un ago magnetico e, facendo passare corrente elettrica attraverso il filo, notò che l’ago ruotava attorno al proprio asse, disponendosi in direzione perpendicolare al filo.

La posizione assunta dall’ago magnetico ci da informazioni riguardo il tipo di campo magnetico e le possibili linee di campo, che sappiamo essere tangenti alla direzione declamo magnetico.

 

esperimento-di-Oersted

 

Le linee di campo, in questo caso, possono essere rappresentate come circonferenze concentriche giacenti in un piano perpendicolare al filo conduttore.

Il verso delle linee di campo, inoltre, è stato scelto convenzionalmente come quello che si ottiene con la regola della mano destra; si punta il pollice nel verso della corrente che percorre il filo; il verso del campo è dato dalla chiusura delle dita della mano.

 

L’esperimento di Faraday

Abbiamo visto con l’esperimento di Oersted che la corrente elettrica genera un campo magnetico.

Un’influenza inversa è stata messa in evidenza da Michael Faraday, che mostrò che ponendo un filo conduttore percorso da corrente all’interno di un campo magnetico, esso può subire una forza.

 

esperimento-di-Faraday

 

In questo caso, la forza che agisce sul filo è perpendicolare sia al filo, sia alla direzione del campo magnetico; il suo verso, invece, è dato anche in questo caso dalla regola della mano destra.

Questa volta, si pone il pollice nel verso della corrente e le dita della mano nella direzione del campo magnetico; il verso della forza è quello uscente dal palmo.

 

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La forza magnetica

L’esperimento di Ampère

Abbiamo visto con gli esperimenti di Oersted e Faraday che il campo elettrico genera un campo magnetico, e che un campo magnetico esercita una forza su un filo conduttore percorso da corrente. Possiamo vedere, allora, cosa accade se i due fenomeni si presentano contemporaneamente.

L’esperimento fu condotto dal fisico francese Ampère, che posizionò due fili conduttori parallelamente, ciascuno di essi attraversato da corrente. L’esperimento fu analizzato in due casi: nel primo, le correnti che attraversano i fili hanno lo stesso verso, mentre nel secondo hanno versi opposti.

In entrambi i casi, il passaggio delle correnti genera un campo magnetico; la differenza, però, sta nella forza che agisce sui fili conduttori, indotta da tale campo.

Nel caso di correnti dello stesso verso,infatti, si nota che i fili paralleli si attraggono; nel caso di correnti con versi opposti, i fili paralleli si respingono.

L’esperimento di Ampère permise anche di formulare una legge che descriva la forza attrattiva o repulsiva che si genera tra i due fili; tale forza è direttamente proporzionale alle correnti che circolano nei fili, e inversamente proporzionale alla distanza che li separa; l’espressione della forza è la seguente:

$F = k_m * frac(i_1 i_2)(d) * l$

dove d indica la distanza tra i fili, l il tratto su cui agisce la forza, mentre  $k_m$ è una costante, data dalla seguente espressione:

$k_m = frac(μ_0)(2π)$

μ è a sua volta una costante, detta permeabilità magnetica del vuoto, e vale  $4π ∙ 10^7 N/A^2$.

 

Il campo magnetico

La definizione di campo magnetico ci permette di definire anche la forza che agisce su un filo conduttore quando esso è percorso da corrente.

L’intensità di tale forza, infatti, varia in base all’angolazione del filo rispetto alle linee di campo; in particolare, il modulo della forza che agisce sul filo è massimo quando il filo è perpendicolare alla direzione del campo magnetico.

Il campo magnetico si definisce come rapporto della forza F sul prodotto dell’intensità di corrente e la lunghezza del tratto l su cui agisce la forza, ossia:

$ B = frac(F)(i * l)$

Quindi, l’unità di misura del campo magnetico è N/(A ∙ m), che nel Sistema Internazionale è stato definito tesla (T).

 

La forza magnetica

Possiamo ora dare una definizione della forza che agisce sul filo conduttore, attraversato da corrente, e posto all’interno di un campo magnetico.

Questa forza, quindi, si esprime come prodotto vettoriale del vettore i ∙ l e del vettore campo magnetico:

$ vec F = vec i l × vec B $

ricordiamo che il prodotto vettoriale tra due vettori è anch’esso un vettore, il cui modulo è dato dal prodotto dei moduli dei vettori di partenza per il seno dell’angolo che si forma tra essi:

$ F = i * l * B * sin α $

questo spiega come mai l’intensità della forza F è massima nel caso il filo è perpendicolare alle linee di campo magnetico; in questo caso, infatti, l’angolo tra ali vettore campo magnetico e il vettore intensità di corrente vale 90°, per cui il seno assume il valore massimo:

$ F = i * l * B * sin 90° = i * l * B $

 

forza-magnetica

 

Nel caso in cui il filo non sia perpendicolare all linee di campo, si hanno valori minori della forza F, che variano in base all’angolo che si forma tra il vettore intensità di corrente e il campo magnetico:

 

forza-magnetica

 

Esercizio

Consideriamo un campo magnetico uniforme di intensità 0,50 T, diretto verticalmente verso il basso. In questo campo magnetico è posto un filo conduttore di lunghezza pari a 10 cm, percorso da corrente elettrica di intensità pari a 5,0 A, che scorre dall’alto verso il basso. Calcolare l’intensità della forza magnetica che agisce sul filo nel caso in cui il filo sia deviato di 30° dall’orizzontale, e nel caso in cui il filo sia in posizione verticale.

Nel primo caso, la situazione si presenta come in figura:

 

forza-magnetica

 

Se l’angolo che il filo forma con l’orizzontale è di 30°, l’angolo che si crea tra il vettore intensità di corrente e il vettore campo elettrico sarà di 60°; possiamo quindi applicare la formula precedente per calcolare l’intensità della forza risultante del filo.

Ricordiamoci, però, di scrivere le grandezze nelle giuste unità di misura:

$ F = i * l * B * sin 60° = 5,0 A * 0,1 m * 0,5 T * frac(sqrt3)(2) = 0,22 N $

Nel secondo caso, invece, il filo si trova in verticale; in questo caso, quindi, l’angolo che si forma tra i due vettori misura 0°, e come sappiamo il seno di 0° è nullo.

Di conseguenza, la forza che agisce sul filo è anch’essa nulla.

 

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Campi magnetici generati da particolari formazioni

Esaminiamo alcuni casi in cui il campo magnetico è generato da particolari conduttori.

 

Il filo percorso da corrente

Nel caso di un filo percorso da corrente, abbiamo visto che le linee di campo sono descrivibili come circonferenze concentriche giacenti in un piano perpendicolare al filo.

E’ stato possibile determinare sperimentalmente, grazie ai fisici Biot e Savart, l’intensità del campo magnetico generato dal filo rettilineo in un punto a distanza d da esso:

$ B = frac(μ_0)(2π) * frac(i)(d)$

dove μ indica la permeabilità magnetica del vuoto, e i l’intensità di corrente che attraversa il filo.

 

La spira

Una spira è filo conduttore chiuso di forma circolare; anche una spira percorsa da corrente genera un campo magnetico.

Questo campo può essere descritto ipotizzando di suddividere la spira in tanti tratti infinitesimi, in modo che ciascuno di essi abbia una forma rettilinea.

Per ciascuna parte, quindi, si considera un punto dello spazio, e si calcola il vettore campo magnetico in quel punto; successivamente si sommano vettorialmente tutti i vettori trovati; la risultante di essi darà il vettore che descrive il campo magnetico in quel punto.

In questo modo, conoscendo i vettori campo magnetico nei diversi punti dello spazio, è possibile costruire anche le linee di campo del campo magnetico risultante.

campo-magnetico
Linee di campo magnetico generate da una spira circolare.

 

Si nota che il vettore campo magnetico nella zona centrale, cioè dove passa l’asse della spira (ovvero la retta perpendicolare al piano contenente la spira, e passante per il suo centro), si sovrappone ad esso, cioè ha stessa direzione dell’asse. Di conseguenza, in ogni punto dell’asse il vettore campo magnetico ha direzione perpendicolare al piano che contiene la spira.

Il verso del vettore, invece, può essere determinato con la regola della mano destra.

In questo caso, si chiudono le dita della mano nel verso in cui circola la corrente nel filo conduttore: la posizione del pollice indica il verso del campo magnetico.

E’ possibile, inoltre, determinare anche un’espressione per l’intensità del campo magnetico in un punto posto a distanza d dal centro della spira:

$ B = frac(μ_0 * i * R^2)(2sqrt((R^2 + d^2)^3))$

dove R indica il raggio della spira.

 

Il solenoide

Un solenoide è costituito da un filo conduttore avvolto su se stesso a elica; la struttura che ricorda una serie di spire circolari incolonnate l’una dopo l’altra.

Consideriamo il caso ideale di un solenoide infinitamente esteso; il campo magnetico generato dal passaggio di corrente all’interno del filo gode di una importante proprietà; all’esterno del solenoide in campo è nullo, mentre all’interno è uniforme, e ha direzione parallela all’asse del solenoide.

Per determinare il vettore campo magnetico in un punto del solenoide, si calcolano prima i contributi di tutte le spire che compongono il solenoide, ovvero tutti i vettori campo magnetico in quel punto dovuti alla presenza di ciascuna spira; successivamente si calcola in vettore risultante, cioè la loro somma vettoriale.

 

campo-magnetico
Linee di campo magnetico generato da un solenoide.

 

Nei casi reali, il campo magnetico di un solenoide si comporta in maniera simile: all’interno del solenoide il campo è uniforme e parallelo all’asse; all’esterno, invece, il campo magnetico è molto debole, e le linee si diradano sempre di più mano a mano che ci si allontana da esso.

In entrambi i casi, è possibile formulare un’espressione che descriva l’intensità del campo magnetico all’interno del solenoide:

$B = μ_0 * frac(N * i)(l)$

dove N indica il numero delle spire che compongono il solenoide, i l’intensità di corrente che lo attraversa, mentre l la sua lunghezza.

Notiamo che la formula è valida anche nel caso ideale; infatti, sebbene per un solenoide di estensione infinita sia il numero delle spire, sia la lunghezza complessiva del solenoide tendano all’infinito, per le proprietà degli infiniti, il limite del loro rapporto è comunque un valore finito. Quindi, l’espressione dell’intensità del campo magnetico ha senso anche per un solenoide ideale.

 

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Il motore elettrico e il momento magnetico

Vi sono alcuni dispositivi che permettono di trasformare l’energia elettrica in energia meccanica, e altri che, invece, trasformane l’energia meccanica in energia elettrica.

Nel primo caso si parla di motori elettrici, mentre nel secondo caso gli strumenti sono le dinamo, o gli alternatori.

 

Il motore elettrico

Esaminiamo il funzionamento di un motore elettrico; generalmente, un motore elettrico è costituito da un involucro (armatura) che contiene delle calamite, una parte rotante (rotore), attorno la quale sono avvolte delle bobine di filo conduttore, e delle spazzole che sfiorano il rotore.

Le spazzole sono collegate ad una pila, che genera una differenza di potenziale; la corrente elettrica che viene fatta circolare, quindi, passa attraverso le spazzole, e da esse nel rotore, fino a raggiungere le bobine.

Passando attraverso i fili conduttori, la corrente elettrica genera un campo magnetico, cosicché l’intera bobina si trasformerà in un magnete.

 

motore-elettrico
Il motore elettrico

 

Il dispositivo è costruito in modo che la bobina e le calamite poste nell’involucro esterno rivolgano l’un l’altra i poli opposti, e si respingano; essendo respinta, la bobina genera un movimento, e mette in rotazione il rotore.

Il processo, poi, continua in maniera automatica, in quanto ogni volta che il rotore compie una parziale rotazione, le spazzole lo sfiorano in parti diverse, e ciò implica che la corrente elettrica scorra nella bobina in verso opposto. Il rotore, quindi, riprende a ruotare nel senso opposto a quello precedente.

 

Il momento magnetico

Nel caso del motore elettrico, abbiamo visto che il passaggio di corrente e la formazione di un campo magnetico provocano la rotazione di un rotore. Tale rotazione è indotta da una serie di forze che entrano in gioco; per questo, ha senso parlare di momento torcente delle forze che agiscono sul rotore.

Consideriamo un rotore di forma rettangolare, schematizzabile con una spira rettangolare, immerso in un campo magnetico.

momento-magnetico

 

Sulla spira agisce una coppia di forze che permette la sua rotazione. Ogni volta che la corrente si inverte anche le forze cambiano verso, cosicché la spira possa continuare a ruotare.

Si può dimostrare che sulla spira la coppia di forze genera un momento torcente che viene definito dal seguente prodotto vettoriale:

$ M = vec μ_m × vec B$

dove μ rappresenta una grandezza vettoriale detta momento magnetico della spira; questo vettore è definito come prodotto dell’intensità di corrente che circola nella spira e del vettore A che descrive la superficie racchiusa dalla spira stessa:

$  vecμ_m = i * vec A$

Come sappiamo, nel caso di prodotti vettoriali, il modulo del vettore risultante è dato dal prodotto dei moduli dei vettori di partenza per l’angolo che si forma tra essi; in questo caso, quindi, il modulo del momento torcente delle forze che agiscono sulla spira è dato da:

$ M = μ_m * B * sin α = i * A * B * sin α$

Dato che il seno di un angolo si annulla nel caso in cui l’angolo sia un multiplo di 0 e 2π, notiamo che il momento torcente si annulla quando l’angolo tra il vettore superficie A e il vettore campo magnetico è di 0°, cioè quando i due vettori sono paralleli.

 

Esercizio

Consideriamo una spira rettangolare immersa in un campo magnetico di intensità  $7,1 * 10^-3 T$. E’ noto che le dimensioni della spira sono 2,5 cm per 7,8 cm, e che all’interno di essa circola una corrente di intensità 3,5 A. Sapendo che il momento torcente delle forze che agiscono sulla spira è di  $5,5 * 10^-6 N * m$, calcolare l’angolo che si forma tra il vettore superficie e il vettore campo magnetico.

Possiamo risolvere il problema considerando la definizione di momento torcente vista per il motore elettrico; sappiamo, infatti, che il modulo del momento torcente è dato dal seguente prodotto:

$ M = i * A * B * sin α$

Possiamo quindi ricavare la formula inversa e determinare il seno dell’angolo richiesto:

$ M = i * A * B * sin α      to     sin α = frac(M)(i * A * B)$

Il modulo del vettore superficie è dato dall’area della superficie racchiusa dalla spira, di forma rettangolare.

Dopo aver espresso le grandezze nelle giuste unità di misura, possiamo sostituirle nella formula precedente:

$sin α = frac(M)(i * A * B) = (5,5 * 10^-6 N * m)(3,5 A * 1,95 * 10^(-3) m^2 * 7,1 * 10^-3 T) = 0,114 $

La formula inversa del seno ci fornisce il valore dell’angolo cercato:

$α = sin^(-1) (0,114) = 6,55 °$

 

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La forza di Lorentz

La forza di Lorentz è una forza che agisce su una carica elettrica in movimento all’interno di un campo magnetico; questa forza si esprime con il seguente prodotto vettoriale:

$ vec F = q vec v × vec B$

dove q indica la carica elettrica puntiforme, v è il vettore velocità con cui si muove la carica elettrica, e B è il campo magnetico cui essa è sottoposta.

Come sappiamo, dalla definizione di prodotto vettoriale, possiamo scrivere il modulo della forza di Lorentz come prodotto dei moduli dei vettori velocità e campo elettrico per il seno dell’angolo tra essi compreso, per il valore della carica q:

$ F = q*v*B*sin α$

La direzione della forza di Lorentz è perpendicolare al piano su cui giacciono i vettori velocità e campo magnetico; il suo verso è dato dalla regola della mano destra.

Nel caso in cui la carica sia positiva, si pone il pollice della mano nel verso della velocità, e le dita in quello del campo magnetico; il verso della forza è quello uscente dal palmo.

Nel caso in cui, invece, la carica sia negativa, si pone il pollice nel verso opposto a quello della velocità e le dita nel verso del campo magnetico: il verso della forza è uscente dal palmo.

La forza di Lorentz riguarda qualsiasi particella carica che sia in movimento: se le particelle sono ferme, infatti, la loro velocità è nulla e di conseguenza anche la forza che agisce su di essa è nulla.

Inoltre, è stato dimostrato anche sperimentalmente che la forza che agisce sulle cariche elettriche per la presenza del campo magnetico riguarda anche cariche che si muovono nel vuoto, e non solo quelle che scorrono all’interno di un conduttore.

L’esperimento è stato fatto considerando un fascio catodico posto all’interno di un campo magnetico; si nota che il fascio viene deviato dalla presenza del campo, rispetto alla direzione rettilinea.

Ponendo un fascio catodico parallelamente ad un filo percorso da corrente elettrica, e sottoposti entrambi ad un campo magnetico, si nota un particolare fenomeno.

Se la corrente che attraversa il filo ha lo stesso verso del raggio catodico, le correnti si attraggono; il fascio, quindi, viene deviato verso il filo. Se, invece, la corrente ha verso opposto a quello del fascio, esse tendono a respingersi; e il fascio, quindi, viene deviato nella direzione opposta.

 

corrente-campo-magnetico
Il fascio di elettroni nella lampadina viene deviato dalla presenza della corrente elettrica che scorre nel filo.

 

Si notano, quindi, gli stessi effetti che si avrebbero nel caso di due fili percorsi da corrente elettrica.

 

Esercizio

Una carica puntiforme di 1,0 μC si muove a velocità costante di 3,0 m/s in un campo magnetico di intensità 0,15 T. La direzione che viene percorsa dalla particella forma un angolo di 45° con la direzione del vettore campo magnetico. Determinare l’intensità della forza che agisce sulla particella, direzione e verso del vettore.

Possiamo rappresentare la situazione descritta nel problema con una semplice schematizzazione:

 

forza-di-lorentz

 

Per determinare l’intensità della forza di Lorentz che agisce sulla particella, dobbiamo avere tre informazioni.

Sappiamo che la sua carica, che espressa in Coulomb vale  $1,0 * 10^(-6) C$;  la velocità della particella e l’intensità del campo magnetico cui essa è sottoposta ci vengono fornite dal problema.

Sapendo, poi, che l’angolo compreso tra il vettore velocità e il vettore campo magnetico è di 45°, possiamo applicare la formula vista precedentemente:

$ F = q*v*B*sin α = 1,0 * 10^(-6) * 3,0 * 0,15 * sin 45° = 0,32 * 10^(-6) N$

La direzione del vettore forza è perpendicolare al piano su cui giacciono i vettori velocità e campo magnetico.

Il suo verso è dato dalla regola della mano destra; sapendo che la carica è positiva, ponendo il pollice sul vettore velocità e le dita nel verso del campo magnetico, notiamo che il verso della forza è uscente dal palmo, e quindi uscente dalla pagina.

 

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L’effetto Hall

Consideriamo una lamina metallica attraversata da corrente elettrica, posta all’interno di un campo magnetico, in modo che il campo magnetico sia perpendicolare alla direzione della corrente.

Gli elettroni che costituiscono la corrente elettrica all’interno della lamina sono sottoposti alla forza di Lorentz, a causa della presenza del campo magnetico.

Se ipotizziamo che il verso del campo magnetico sia entrante nella pagina, e che la corrente elettrica fluisca da sinistra verso destra,  la forza di Lorentz tenderà a spingere gli elettroni verso la parte superiore della lamina:

 

effetto-hall

 

In questo modo si ha una divisione delle cariche all’interno della lamina, cosicché il bordo superiore si carica negativamente, mentre quello inferiore positivamente.

Tra il bordo superiore e quello inferiore, quindi, si crea una differenza di potenziale; tale effetto prende il nome di effetto Hall.

Il segno della differenza di potenziale dipende dal segno dei portatori di carica che si muovono all’interno del conduttore.

Notiamo, infatti, che se i portatori di carica fossero positivi, cioè fossero protoni, la forza di Lorentz agirebbe su di essi, spostandoli verso la parte superiore della lamina; in quel caso, quindi, si avrebbe sempre una separazione di cariche all’interno della lamina, ma quelle positive si troverebbero nella parte superiore, mentre quelle negative in quella inferiore.

 

La tensione di Hall

Il fisico statunitense Edwin Hall scoprì che la differenza di potenziale che si registra è quella prevista nel caso di portatori di carica negativi (infatti, nei metalli la corrente elettrica è generata dal movimento degli elettroni).

Il campo magnetico e la forza di Lorentz agiscono sulle particelle in movimento all’interno della lamina fino ad un certo momento: la separazione delle cariche, infatti, fa si che, oltre al campo magnetico presente fin dall’inizio, si venga a creare anche un campo elettrico.

Sotto l’influsso del campo elettrico, le cariche negative vengono spinte verso il basso. La forza elettrica, quindi, tende a bilanciare quella di Lorentz, cosicché ad un certo punto viene raggiunto un equilibrio, e le cariche negative continuano a fluire nella lamina metallica senza che la loro traiettoria venga deviata.

 

effetto-hall

 

In questa situazione di equilibrio, possiamo esprimere il valore della differenza di potenziale che si genera per l’effetto Hall, che prende il nome, appunto, di tensione di Hall:

$ ∆V_H = d * v * B $

dove d indica la larghezza della lamina metallica, v la velocità con cui si muovono le cariche elettriche, e B il campo magnetico a cui sono sottoposte.

 

Il selettore di velocità

Sulla base delle considerazioni fatte precedentemente, è possibile creare degli apparecchi, chiamati selettori di velocità, che permettono il passaggio, all’interno di essi, solo di particelle che si muovono ad una particolare velocità.

Questi dispositivi sono formati, solitamente, da un condensatore piano immerso all’interno di un campo magnetico; supponiamo che il moto delle particelle all’interno del condensatore sia da sinistra verso destre, e che all’estremità destra del condensatore sia presente una lastra con un foro centrale.

 

selettore-di-velocità
Il selettore di velocità.

 

Come nel caso precedente, anche qui è presente sia un campo magnetico che un campo elettrico, e su ogni particella che s muove all’interno del condensatore agiscono due forze, quella elettrica e quella magnetica, che hanno stessa direzione e verso opposto.

Se le due forze hanno modulo uguale, la risultante di esse è il vettore nullo, quindi sulla particella non agiscono forze, e essa continua a muoversi di moto rettilineo, passando attraverso il foro della parete.

Le particelle che riescono a fuoriuscire, quindi, hanno una velocità pari a $v = E/B$, data dall’uguaglianza tra i moduli delle forse elettrica e magnetica.

Se la particella avesse una velocità differente, significherebbe che anche le forze che agiscono su di essa hanno moduli differenti, e quindi che una di esse prevarrebbe sull’altra; se ciò accade, la particella verrebbe deviata, e non potrebbe fuoriuscire dal foro.

Di conseguenza, in un fascio di particelle che fluiscono all’interno del condensatore, se esse hanno velocità diverse, possono fuoriuscire da esso solo quelle che presentano una velocità pari a  $v = E/B$.

 

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Moto di una carica in un campo magnetico

Una carica puntiforme che si muove con velocità v all’interno di un campo magnetico è sottoposta alla forza di Lorentz; tale forza, agendo sulla carica, ne modifica la traiettoria, costringendola a seguire un moto ben preciso.

Come abbiamo visto precedentemente, la forza di Lorentz che agisce sulla carica ha direzione perpendicolare a quella della sua velocità, e quindi anche a quella dello spostamento.

Come sappiamo, nel caso in cui forza e spostamento siano perpendicolari, il lavoro compiuto dalla forza (dato dal prodotto scalare di forza e spostamento) è nullo.

Dal teorema dell’energia cinetica, sappiamo che la differenza di energia cinetica di un corpo è uguale al lavoro che viene svolto dalla forza che agisce su di esso; in questo caso, quindi, anche l’energia cinetica è nulla.

Il fatto che un corpo non subisca variazione di energia cinetica significa che la sua velocità rimane costante in modulo.

Possiamo quindi affermare che la forza di Lorentz che agisce su una particella non modifica il modulo della sua velocità, ma soltanto la sua traiettoria: ciò che cambia, quindi, è la direzione e il verso della velocità della particella.

Un moto uniforme che riflette queste stesse caratteristiche è quello circolare, in cui la forza è centripeta, rivolta cioè verso il centro della circonferenza, e perpendicolare i ogni punto alla velocità tangenziale.

In effetti, si può dimostrare che il moto che viene descritto da una particella all’interno di un campo magnetico è proprio un moto circolare uniforme.

In questo caso, se il campo magnetico è uniforme, la forza di Lorentz è costante, e vale F = qvB (perché i vettori sono perpendicolari, e quindi si ha sen 90° = 1), ed è sempre perpendicolare sia alla velocità della particelle, sia al campo magnetico.

 

campo-magnetico
Moto circolare di una carica in presenza di un campo magnetico.

 

Conoscendo l’espressione della forza di Lorentz, e quella della forza centripeta, e sapendo che in questo caso le due forze coincidono, possiamo determinare ulteriori informazioni sul moto che compie la particella; ad esempio, possiamo ricavare il raggio della circonferenza che essa descrive.

$F_q = q*v*B      ,      F_c = m * frac(v^2)(r)       to      r = frac(m * v)(q * B) $

dove m indica la massa della particella, v la sua velocità, q la sua carica, e B il campo magnetico cui essa è sottoposta.

La velocità della particella, in un moto circolare uniforme, si esprime come rapporto tra la lunghezza della circonferenza e il periodo di rotazione:

$ v = frac(2πr)(T)$

Sostituendo questa formula nell’espressione precedente, possiamo  esprimere anche il periodo del moto circolare in funzione delle altre grandezze:

$ r = frac(m * v)(Q * B) = frac(m)(q * B) * frac(2πr)(T)        to      T = frac(2πm)(q*B)$

 

Il moto elicoidale

Una particella che si muove in un campo magnetico non sempre ha velocità perpendicolare alla direzione del campo magnetico.

Nel caso in cui si formi un angolo particolare tra i due vettori, la traiettoria descritta dalla particella non è quella di un moto circolare uniforme.

In questo caso, si scompone la velocità nelle sue componenti, delle quali una è perpendicolare al campo magnetico, mentre l’altra è parallela ad esso.

Notiamo così, che il moto descritto dalla velocità parallela è rettilineo uniforme, mentre quello descritto dalla componente perpendicolare è circolare uniforme.

Poiché entrambe le velocità sussistono contemporaneamente, il moto totale è dato dalla sovrapposizione dei due moti precedenti, cosicché il moto risultante è descritto da un’elica cilindrica a passo costante, io tale che la distanza tra una “circonferenza” e l’altra è sempre la stessa.

traiettoria-elicoidale
Traiettoria elicoidale della particella.

 

In questo caso, il raggio dell’elica si può ricavare sempre dalla formula vista precedentemente, sostituendo però al posto della velocità v, la sua componente perpendicolare:

$ r_c = frac(m * v_⊥)(q * B)$

 

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Il flusso del campo magnetico

Come nel caso del campo elettrico, anche per il campo magnetico si può parlare di flusso attraverso una superficie piana.

Il flusso del campo magnetico si esprime come prodotto scalare tra il vettore campo magnetico e il vettore superficie:

$Φ(vec B) = vec B * vec S = B * S * cos α$

Anche in questo caso alfa indica l’angolo compreso tra i vettori campo elettrico e superficie.

Possiamo facilmente immaginare, quindi, che il flusso del campo magnetico è massimo quando il campo magnetico è parallelo al vettore superficie, quindi quando il campo magnetico è perpendicolare alla superficie stessa; mentre il flusso è nullo quando il campo magnetico è perpendicolare al vettore superficie, cioè quando il campo magnetico è parallelo alla superficie.

Il flusso del campo magnetico si misura in  $T ∙ m^2$,  che nel sistema internazionale si indica con il weber (Wb).

Notiamo che nel caso di superfici chiuse il vettore S è, per definizione, uscente dalla superficie, mentre per una superficie piana qualunque il verso si S è arbitrario. Possiamo definire, quindi, la faccia positiva come quella rivolta nello stesso verso di S, mentre l’altra sarà la faccia negativa.

In base al verso delle linee di campo del campo magnetico rispetto alla superficie, possiamo determinare se il flusso del campo magnetico sarà positivo o negativo.

Ricordiamo che per angoli acuti, il coseno assume valori positivi, mentre per angoli ottusi si hanno valori negativi.

Di conseguenza, se le linee del campo magnetico escono dalla faccia positiva della superficie, l’angolo che si forma tra il vettore superficie e il vettore campo magnetico è acuto, e di conseguenza si avrà un valore positivo del flusso;

al contrario, se le linee del campo magnetico entrano nella faccia positiva, l’angolo che si forma tra il vettore superficie e il vettore campo magnetico è ottuso, e di quindi si avrà un valore negativo del flusso.

flusso-campo-magnetico
Flusso del campo magnetico e linee di campo che attraversano la superficie.

 

Anche in questo caso, se la superficie in questione non è piana, ma ha una forma non regolare, è possibile calcolare il flusso del campo magnetico attraverso di essa.

Si procede dividendo la superficie in n parti, piccola a sufficienza in modo tale che ciascuna di esse possa essere considerata una superficie piana.

Successivamente, si calcola il flusso del campo magnetico attraverso ciascuna di queste superfici, e si sommano i valori ottenuti; il flusso del campo magnetico totale, quindi, può essere espresso dalla seguente formula:

$Φ(vec B)_(Tot) = \sum_{i=1}^n Φ(vec B)_i = \sum_{i=1}^n  vec B_i * ∆vec S_i = \sum_{i=1}^n B_i * ∆S_i * cos α_i$

 

Il teorema di Gauss per il campo magnetico

Anche per il campo magnetico vale un teorema di Gauss molto simile a quello per il campo elettrico: in questo caso, si può affermare che il campo magnetico attraverso qualunque superficie chiusa è uguale a zero.

Questo teorema può essere spiegato perché una delle principali caratteristiche dei magneti è il fatto che ogni magnete possiede un polo sud e un polo nord, ed essi non possono essere separati. Di conseguenza, all’interno di qualsiasi superficie chiusa, in presenza di magneti, saranno sempre presenti nella stessa quantità poli nord e poli sud magnetici.

A differenza del caso del campo elettrico, inoltre, per il campo magnetico le linee di campo sono linee chiuse, oppure linee che si estendono all’infinito, e non linee che hanno un inizio e una fine ben precisi. Accade, quindi, che per una superficie chiusa, ad ogni linea entrante ne corrisponde una uscente; questo spiega perché il flusso del campo magnetico è nullo per una superficie chiusa.

 

La circuitazione del campo magnetico

Anche nel caso del campo magnetico abbiamo una definizione di circuitazione molto simile a quella del campo elettrico.

Considerando un percorso chiuso orientato, e indicando con ∆li ogni suddivisione del percorso abbastanza piccola da poter essere considerata rettilinea, si definisce la circuitazione del vettore B lungo tale percorso nel seguente modo:

$ Γ_L (vec B) =  \sum_{i=1}^n  vec B_i * ∆vec l_i = \sum_{i=1}^n B_i * ∆l_i * cos α_i$

 

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Alcune proprietà magnetiche

Abbiamo visto precedentemente il comportamento di alcuni materiali, detti ferromagnetici, che possono magnetizzarsi e attrarre così altri oggetti quando vengono in contatto con dei magneti, ad esempio se accostati ad una magnetite.

In generale, le altre sostanze, che non sono ferromagnetiche, non risentono degli effetti di piccoli magneti, o di un campo magnetico di piccola intensità. In condizioni normali, ad esempio, sostanze come l’acqua, l’argento o il rame non subiscono effetti particolare in presenza di un campo magnetico.

La situazione cambia se il campo magnetico cui vengono sottoposti ha un’intensità particolarmente elevata.

In laboratorio è possibile generare dei campi magnetici molto intensi, e sottoponendo ad essi alcune sostane non ferromagnetiche, si è notato che anche esse risentono leggermente del campo magnetico.

Alcune di esse, infatti, vengono debolmente respinti dal campo magnetico (in questo caso si parla di sostanze diamagnetiche), mentre altre vengono leggermene attratte (in questo caso si parla di sostanze paramagnetiche).

E’ importante osservare che il comportamento di queste sostanze può essere spiegato grazie al comportamento delle particelle che compongono le sostanze stesse.

Come sappiamo, infatti, ogni oggetto è formato da molecole, costituita da atomi neutri (in condizioni normali), che sono disposte in maniera casuale all’interno del corpo, cioè non hanno una particolare orientazione.

Quando, però, il corpo è posto all’interno di un campo magnetico, le molecole tendono ad orientarsi a causa della sua presenza; mentre inizialmente gli elettroni ruotavano attorno agli atomi seguendo ciascuno un’orientazione propria, in presenza del campo magnetico gli elettroni tendono a ruotare tutti nello stesso verso.

L’effetto che si crea, quindi, è paragonabile a quello di una corrente che circola sulla superficie del corpo.

 

campo-magnetico
Effetto di un campo magnetico in un corpo.

 

Tale corrente, come sappiamo, genera a sua volta un campo magnetico; in questo modo, il campo magnetico totale che si viene a creare è dato dalla somma di due campi magnetici; quello iniziale, responsabile dell’allineamento delle molecole del corpo, che indichiamo con  $B_0$, e quello generato dalla corrente che si crea sulla sua superficie, indicato con  $B_m$; si ha quindi che:

$vec B_(Tot) = vec B_0 + vec B_m$

Inoltre, per descrivere il comportamento di una sostanza in presenza di un campo magnetico esterno, è utile introdurre una nuova grandezza, definita permeabilità magnetica relativa, data dalla seguente relazione:

$vec B_(Tot) = μ_r * vec B_0 $

In base al valore che assume μ si può risalire alla tipologia di sostanza in quesitone.

Vediamo, quindi, in dettaglio le caratteristiche di queste particolari sostanze.

 

Le sostanze ferromagnetiche

Le sostanze ferromagnetiche sono quelle che risentono di più della presenza di un campo magnetico esterno, e sono anche quelle che generano un campo magnetico Bm particolarmente intenso.

I due campi magnetici che si vengono a creare hanno lo stesso verso, quindi il campo magnetico risultante, dato dalla somma dei singoli campi magnetici, risulta molto intenso, e molto maggiore rispetto ad essi.

In particolare, il campo magnetico è più intenso all’interno del corpo, dove si addensano maggiormente le linee di campo.

 

Le sostanze paramagnetiche

Le sostanze paramagnetiche sono quelle che, se sottoposte ad un campo magnetico esterno molto intenso, tendono ad essere leggermente attratte da esso.

Infatti, anche se in maniera molto meno significativa, l’allineamento delle molecole in queste sostanze segue l’andamento di quelle nel caso di sostanze ferromagnetiche, ma in questo caso i momenti magnetici che si generano all’interno delle sostanze sono molto deboli.

Infatti il campo magnetico risultante è molto lieve, e leggermente più intenso di quello esterno, e le linee di campo vengono leggermente attratte dalla sostanza.

 

Le sostanze diamagnetiche

Le sostanze diamagnetiche, invece, sono quelle che, se sottoposte ad un campo magnetico esterno intenso, vengono leggermente respinte da esso.

In questo caso, all’interno delle sostanze gli effetti magnetici si compensano, e di conseguenza si hanno momenti magnetici nulli.

Quando la sostanza si trova all’interno di un campo magnetico esterno, l’equilibrio al suo interno viene alterato, e si crea un momento magnetico interno che ha verso opposto a quello del campo magnetico esterno.

In questo modo, quindi, il campo magnetico risultante sarà leggermente inferiore a quello esterno di partenza, e le linee di campo vengono leggermente respinte dalla sostanza.

 

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Isteresi magnetica

Il ciclo di isteresi magnetica descrive bene le proprietà delle sostanze ferromagnetiche; esso consiste in un diagramma di stato in cui viene riportato il campo magnetico esterno (indicato con  $B_0$ ), oppure al corrente elettrica che lo genera, e il campo magnetico totale (indicato con  $B$ ).

L’isteresi, in generale, indica la caratteristica di un sistema di reagire in ritardo alle modifiche del suo stato rispetto a quello precedente.

Quando si studia una determinata caratteristica di un materiale, e lo si sottopone ad uno stimolo ripetuto ciclicamente, rappresentando i dati ottenuti in un grafico si ottiene una curva chiusa.

Nel caso dell’isteresi magnetica, riportando i dati ottenuti in un grafico, si ottiene il ciclo di isteresi magnetica.

Nelle sostanze ferromagnetiche, il campo magnetico cui vengono sottoposte genera in loro una specie di memorizzazione; quando, infatti, un oggetto di questo tipo viene magnetizzato, portando il campo magnetico esterno al valore massimo possibile, e poi si riduce il campo magnetico esterno fino a renderlo nullo, si osserva che l’oggetto rimane magnetizzato.

Si dice, quindi, che l’oggetto ha acquisito una magnetizzazione permanente.

Per questo tipo di sostanze, però, esiste un tipo di smagnetizzazione, che consiste nel riscaldarle al di sopra di una certa temperatura, che viene definita temperatura di Curie.

A questa temperatura, un materiale ferromagnetico diviene paramagnetico, perdendo così la sua magnetizzazione.

 

Ciclo di isteresi magnetica

Per rilevare il ciclo di isteresi magnetica si utilizza un particolare dispositivo: esso è costituito da due solenoidi (aventi un certo numero di spire ciascuno), collegati in serie tra loro e ad un generatore, e attraversati da corrente.

Il materiale ferromagnetico che si vuole studiare, invece, è composto da due barrette di ferro poste all’interno del solenoide.

Quando si aumenta l’intensità di corrente che fluisce nel circuito, e all’interno del solenoide, aumenta anche il campo magnetico generato dalla variazione di corrente.

Anche negli oggetti ferromagnetici presenti nel solenoide si avrà un aumento del campo magnetico, ma in essi si verifica un fenomeno detto di saturazione magnetica: la magnetizzazione, cioè, aumenta solo fino ad un certo valore, caratteristico per ogni tipo di materiale, per poi bloccarsi nel suo valore massimo.

 

Rappresentazione di un ciclo di isteresi magnetica

Vediamo, quindi, la rappresentazione di un ciclo di isteresi magnetica, esaminando ogni tratto di curva.

In un primo momento, si aumenta l’intensità di corrente che circola nel cicciotto, facendo aumentare così anche il campo magnetico totale; la curva cresce rapidamente nel primo tratto, fino ad un certo punto, in cui il campo magnetico tende a rimanere costante: tale punto è il punto di saturazione.

 

ciclo-di-isteresi-magnetica

 

Successivamente, si ricuce la corrente nel circuito, fino a spegnerla completamente: sinora che il campo magnetico non si annulla, ma si ha registra una magnetizzazione residua nel materiale, cosicché esso si trasforma in un magnete permanente.

 

ciclo-di-isteresi-magnetica

 

Per riportare l’oggetto c nella situazione di partenza, si invece il senso della corrente nel solenoide, così da produrre un campo magnetico di segno opposto:

 

ciclo-di-isteresi-magnetica

 

Successivamente, aumentando l’intensità di corrente elettrica che circola in senso opposto, è possibile portare il materiale a saturazione magnetica opposta; la curva che rappresenta questa situazione avrà il seguente aspetto:

 

 

ciclo-di-isteresi-magnetica

 

Infine, spegnendo la corrente, il materiale rimarrà magnetizzato di segno negativo, e per eliminare questo effetto occorrerà far scorrere la corrente nel verso iniziale, per un certo tratto.

In questo modo, la curva si chiude, così da completare il ciclo di isteresi magnetica.

 

ciclo-di-isteresi-magnetica

 

La curva completa, possiamo notare, non passa per l’origine, che era il punto di partenza iniziale, corrispondente al caso in cui il campo magnetico è nullo e non si ha corrente elettrica nel circuito.

 

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La legge di Faraday-Neumann

La legge di Faraday-Neumann descrive, in modo generale, il fenomeno dell’induzione elettromagnetica, cioè la generazione di corrente elettrica da parte di un campo magnetico.

Come sappiamo, la presenza di corrente che scorre in un filo conduttore genera un campo magnetico, visibile dalla rotazione di un ago magnetico (nell’esperimento di Oersted); anche un campo magnetico ha effetti su un filo percorso da corrente, come mostra l’esperimento di Faraday con i fili paralleli.

Vediamo ora che è anche possibile che un campo magnetico generi una corrente elettrica.

Tuttavia, in questo caso è necessaria una particolare condizione: il campo magnetico deve essere variabile, non costante.

Ad esempio, rispetto alla posizione fissa di un amperometro, se facciamo muovere un magnete avanti e indietro rispetto a tale punto, noteremo una rilevazione di corrente elettrica; se la calamita è ferma, invece, non si avrà variazione nel campo elettrico.

Un fenomeno di questo tipo prende il nome di induzione elettromagnetica, e la corrente elettrica che viene generata si definisce corrente elettrica indotta.

Una corrente elettrica può essere indotta anche se non è presente esplicitamente un magnete; l’importante è che venga generato un campo magnetico variabile.

Dato che anche una corrente elettrica che circola in un filo conduttore genera un campo magnetico, possiamo sfruttare questa caratteristica per generare una corrente indotta.

Ad esempio, poniamo vicini due fili conduttori, collegati ciascuno ad un amperometro; supponiamo che in uno di essi circoli corrente, perché collegato ad una batteria, mentre nell’altro no. Il primo filo genera un campo magnetico; se tale campo è costante, non si avranno variazioni nel secondo filo, ma se facciamo variare l’intensità di corrente che circola nel primo, varierà anche il campo magnetico da esso generato. Questa variazione di campo magnetico creerà una corrente indotta sul secondo filo.

In particolare, la corrente indotta dipende non solo dalla variazione del campo magnetico e dalla sua rapidità, ma anche dall’area che viene interessata dal circuito indotto e dalla sua orientazione rispetto alle linee di campo magnetico cui è sottoposto.

In generale si può affermare che la corrente indotta dipende dal flusso del campo magnetico attraverso la superficie che ha come contorno il circuito indotto.

Possiamo ora introdurre la legge di Faraday-Neumann, che esprime la relazione tra la forza elettromotrice indotta in un circuito e il flusso del campo magnetico attraverso la superficie interessata dal circuito indotto:

$f_(em) = – frac(∆Φ(vecB))(∆t)$

∆t indica l’intervallo di tempo in cui avviene la variazione del flusso del campo magnetico.

Notiamo che la formula esprime il valore della forza elettromotrice media; se volessimo calcolare il valore della forza elettromotrice istantanea, dovremmo calcolare il limite per ∆t che tende a zero della quantità precedente, ovvero la derivata del flusso rispetto al tempo:

$f_(em) = \lim_{∆t to 0} – frac(∆Φ(vecB))(∆t) = frac(d[Φ(vecB)])(∆t)$

Ricordiamo che la forza elettromotrice può essere espressa come prodotto dell’intensità di corrente per la resistenza; se è noto il valore della resistenza, quindi, possiamo ricavare l’intensità della corrente indotta:

$ i = frac(f_(em))(R) = – frac(∆Φ(vecB))(R * ∆t)$

 

Esercizio

Consideriamo una spira di raggio 2,5 cm immersa in un campo magnetico uniforme di intensità pari a 0,15 T.

In un primo momento la spira è posta perpendicolarmente alle linee di campo, mentre dopo viene ruotata, fino a raggiungere un’angolazione di 30° rispetto ad esse. Sapendo che la rotazione avviene in 10s, calcolare la variazione del flusso del campo magnetico, e il modulo della forza elettromotrice indotta.

Al momento iniziale, quando la spira è perpendicolare al campo magnetico, il vettore superficie è parallelo al vettore campo magnetico; di conseguenza, il flusso del campo magnetico iniziale è dato da:

$Φ(vecB)_i = B*S*cos0° = 0,15 T * 1,96 * 10^(-3) m^2 = 2,94 * 10^(-4) Wb $

Quando, poi, la spira viene ruotata di 30°, l’angolo che si forma tra i vettori superficie e campo magnetico è di 30°, quindi:

$Φ(vecB)_f = B*S*cos 30° = 0,15 T * 1,96 * 10^(-3) m^2 *cos 30° = $

$ = 2,55 * 10^(-4) Wb $

La variazione del flusso del campo elettrico, quindi, è data dal valore finale meno il valore iniziale:

$ ∆Φ(vecB) = Φ(vecB)_f – Φ(vecB)_i =  2,55 * 10^(-4) Wb – 2,94 * 10^(-4) Wb = – 0,39 * 10^(-4) Wb $

Conoscendo la variazione di flusso, e l’intervallo di tempo in cui avviene, possiamo applicare la legge di Faraday-Neumann e calcolare la forza elettromotrice indotta:

$ f_(em) = – frac(∆Φ(vecB))(∆t) = – frac(- 0,39 * 10^(-4) Wb)(10 s) = 3,9 * 10^(-6) V $

 

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La legge di Lenz

Le correnti indotte

Come abbiamo visto in precedenza con la legge di Faraday-Neumann, la presenza di un campo magnetico genera una corrente indotta, la cui intensità dipende dalla variazione del flusso del campo magnetico in un determinato intervallo di tempo, e dalla resistenza del filo conduttore.

Sappiamo anche che, quando si genera una corrente indotta, grazie alla presenza di un campo magnetico esterno, la corrente stessa che circola nel conduttore genera a sua volta un altro campo magnetico.

Il campo magnetico risultante, quindi, è dato dal contributo del campo magnetico esterno di partenza più il campo magnetico generato dalla corrente indotta.

 

La legge di Lenz

La legge di Lenz permette di determinare il verso di circolazione della corrente indotta a partire dal flusso del campo magnetico che la genera; in particolare, la legge di Lenz afferma che il verso della corrente indotta è sempre tale da opporsi alla variazione di flusso che la genera.

Quindi, consideriamo una spira circolare sottoposta ad un campo magnetico esterno le cui linee di campo sono rivolte verso il basso.

In questo caso, la corrente indotta circola in senso antiorario, e il campo magnetico generato da tale corrente è rivolto verso l’alto, così da contrastare il campo magnetico esterno.

 

campo-magnetico-e-correnti-indotte

 

Infatti, se la corrente circolasse in senso opposto, ossia in senso orario, il campo magnetico generato dalla corrente avrebbe lo stesso verso di quello esterno, rivolto cioè verso il basso; ma un campo magnetico totale più intenso di quello di partenza creerebbe un aumento del flusso totale, e cioè una corrente indotta maggiore.

In questo modo, quindi, si avrebbe un processo senza fine, che porterebbe ad aumentare sempre di più sia il flusso del campo magnetico sia l’intensità della corrente indotta. Un simile processo non può verificarsi, andrebbe contro il principio di conservazione dell’energia.

Abbiamo, quindi, una valida prova della correttezza della legge di Lenz.

 

Il verso del campo magnetico indotto

Dalla legge di Lenz possiamo dedurre il verso del del campo magnetico indotto in base al tipo di variazione del flusso del campo magnetico esterno:

  • Nel caso in cui il si avesse un aumento del flusso del campo magnetico esterno, il campo magnetico indotto avrebbe verso opposto a quello del campo esterno;
  • nel caso di una diminuzione del flusso di campo magnetico esterno, invece, il magnetico indotto avrebbe lo stesso verso del campo esterno;

La legge di Lenz, inoltre, spiega come mai nella formule di Faraday-Neumann appaia un segno meno davanti al flusso del campo magnetico: il segno, infatti, sottolinea il fatto che il verso della corrente indotta sia opposto alla variazione del flusso che la genera.

 

Una verifica sperimentale

Una verifica sperimentale della legge di Lenz si ha quando si tenta di estrarre una sostanza diamagnetica da un campo magnetico particolarmente intenso.

In particolare, se l’estrazione avviene lentamente, la sostanza non risente in alcun modo del campo; tuttavia, se si estrae rapidamente la sostanza dal campo magnetico, si noterà che essa oppone resistenza all’estrazione.

Questo fenomeno può essere spiegato con la legge di Lenz.

Infatti, quando si estrae un corpo diamagnetico da un campo magnetico, essa subisce una variazione del flusso di campo, che, come sappiamo, genera delle correnti indotte che scorrono lungo il volume del corpo.

Queste correnti, dette correnti di Foucault,  si oppongono alla variazione del flusso che le genera, e di conseguenza su di esse agisce una forza magnetica che tende a spingerle nel verso opposto a quello dell’estrazione.

Quando il corpo viene estratto lentamente dal campo magnetico, si può avvertire comunque una forza frenante che agisce su di esso, che avrà però un intensità molto minore: più lenta è l’estrazione del corpo dal campo magnetico, infatti, più lenta sarà la variazione del flusso del campo magnetico, e di conseguenza anche le correnti indotte saranno di minore intensità.

 

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Autoinduzione e mutua induzione

L’autoinduzione

Una variazione del campo magnetico genera, in un conduttore posto all’interno di esso, una corrente elettrica indotta.

Tuttavia, non sempre è necessaria la presenza di un campo magnetico per generare delle correnti indotte. Infatti, la semplice variazione di corrente elettrica in un circuito genera una forza elettromotrice indotta nel circuito stesso.

Questo accade, ad esempio, in un circuito in cui è presente un interruttore; quando l’interruttore viene aperto o chiuso, si ha una variazione della corrente elettrica che circola in esso, e ciò genera un campo magnetico variabile.

Il flusso del campo magnetico, quindi, subisce una variazione in entrambi i casi, generando così una corrente indotta.

In particolare, quando l’interruttore del circuito viene chiuso, il flusso del campo magnetico aumenta, e di conseguenza la corrente indotta che si crea si oppone al flusso stesso che la genera.

La corrente indotta, quindi, circola in senso opposto a quella presente in partenza nel circuito, determinando una diminuzione nella crescita della corrente elettrica complessiva.

Nel caso in cui, invece, l’interruttore viene aperto, si ha una diminuzione del flusso del campo magnetico; in questo modo la corrente indotta, che si oppone al flusso, circola nello stesso verso di quella di partenza.

L’effetto dell’autoinduzione su un determinato conduttore può essere descritto da un coefficiente che prende il nome di coefficiente di autoinduzione, o induttanza.

Il coefficiente è descritto in una legge che mostra che il flusso del campo magnetico che attraversa un circuito è direttamente proporzionale all’intensità di corrente che attraversa il circuito stesso:

$ Φ(vec B) = L * i $

Nel Sistema Internazionale, l’induttanza si misura in Wb/A, una grandezza fisica che prende il nome dal fisico statunitense che la studiò: henry (H).

A partire dalla legge di Faraday-Neumann, è possibile determinare una formula che permette di determinare la forza elettromotrice in un circuito RL, cioè un circuito elettrico in cui è inserita in serie un’induttanza.

La relazione che sussiste è la seguente:

$ f_(em) = – frac(∆Φ(vec B))(∆t) = – L * frac(∆i)(∆t)$

 

La mutua induzione

Come abbiamo già visto, non è necessaria la presenza di un magnete per generare una corrente indotta; la semplice corrente elettrica anche fluisce in un circuito, se è una corrente di variabile intensità, genera un campo magnetico variabile, che può indurre corrente elettrica in un altro.

Quindi, la variazione di corrente elettrica genera una variazione del flusso del campo magnetico nel secondo circuito;  di conseguenza in esso comincia a scorrere corrente. Si può dimostrare che il flusso del campo magnetico relativo ad uno dei due circuiti è direttamente proporzionale alla corrente che lo genera, e che scorre nell’altro circuito; la relazione è data dalla seguente formula:

$ Φ_(1 to 2) = M * i_1      ,       Φ_(2 to 1) = M * i_2 $

dove M rappresenta una costante, detta coefficiente di mutua induzione dei circuiti. Anche questo coefficiente, così come il coefficiente di autoinduzione, viene misurato in henry (H).

Anche in questo caso, possiamo ricavare l’espressione della forza elettromotrice indotta in ciascuno dei due circuiti, e dovuta alla presenza della corrente che scorre nell’altro:

$ f_(em) ^(1 to 2) =  – M * frac(∆i_1)(∆t)        ,         f_(em) ^(2 to 1) =  – M * frac(∆i_2)(∆t)$

 

Esercizio

Consideriamo due circuiti che hanno coefficiente di mutua induzione  $M = 35 mH$.  Nel primo circuito, la corrente che circola inizialmente ha intensità pari a  $0,85 A$;  in seguito ad una variazione di corrente, si registra un valore pari a  $1,8 A$.  Tale variazione avviene in  $4,5 s$.

Calcolare la variazione del flusso di campo magnetico relativa al secondo circuito, e la forza elettromotrice indotta in esso.

Per calcolare la variazione del flusso di campo magnetico nel secondo circuito, dobbiamo conoscere la variazione di intensità di corrente che avviene nel primo; conoscendo i valori iniziale e finale della corrente, abbiamo che:

$∆i_1 = 1,8 A – 0,85 A = 0,95 A$

La variazione del flusso, quindi, è data dal prodotto del coefficiente M per la variazione di corrente:

$ ∆Φ_(1 to 2) = M * i_1 ^f  – M * i_1 ^i = M * ∆i_1 = $

$ = 35 * 10^(-3) H * 0,95 A = 3,33 * 10^(-2) Wb $

Possiamo ora calcolare la forza elettromotrice indotta nel secondo circuito con la formula vista precedentemente:

$ f_(em) ^(1 to 2) =  – M * frac(∆i_1)(∆t) = – 35 * 10^(-3) H * frac(0,95 A)(4,5 s) = – 7,39 * 10^(-3) V = – 7,39 mV$

 

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Energia elettrica e corrente alternata

Energia immagazzinata in un circuito

Come abbiamo visto nel caso dell’autoinduzione, quando un circuito viene chiuso, si genera all’interno di esso una corrente indotta che si oppone al moto della corrente di partenza, ritardando la crescita complessiva della corrente nel circuito.

Possiamo dire, quindi, che si crea una forza elettromotrice indotta che si oppone al fluire della corrente.

Di conseguenza, il generatore presente nel circuito, per far variare l’intensità di corrente da un valore  $i = 0$  ad un valore  $i = I$  , deve compiere lavoro contro l’effetto ritardate della forza motrice.

Il lavoro compiuto dal generatore, dato dalla seguente formula:

$ W = 1/2 L*I^2 $

non viene dissipato, ma resta immagazzinato all’interno del campo magnetico, presente in prossimità dell’induttanza, sotto forma di energia.

L’energia immagazzinata viene poi restituita per effetto joule dalla corrente che fluisce nel circuito quando esso viene aperto.

Possiamo introdurre, anche in questo caso, la grandezza definita densità volumica di energia magnetica.

Nel caso di un solenoide, essa è data dal rapporto dell’energia immagazzinata nel campo magnetico del solenoide sul volume occupato da esso:

$ w_(vec B) = frac(W)(S * l)$

dove S indica l’area di una spira dl solenoide, mentre l indica la sua lunghezza complessiva; il prodotto Sl, quindi, rappresenta il volume contenuto all’interno del solenoide.

 

La corrente alternata

La corrente alternata è una corrente elettrica che scorre con intensità variabile; essa, infatti, è generata da un generatore che produce una tensione alternata, cioè che cambia continuamente modulo.

La corrente alternata viene prodotta da alcuni dispositivi detti alternatori, che servono per trasformare l’energia cinetica in energia elettrica.

L’alternatore è costituito da una spira posta all’interno di un campo magnetico, che viene costantemente fatta ruotare all’interno di esso, in modo da essere sottoposta al campo magnetico sempre in diverse angolazioni.

In questo modo, poiché varia di continuo l’orientazione delle linee di campo rispetto alla spira, varia anche il flusso del campo magnetico cui essa è sottoposta, e di conseguenza si genera al suo interno una corrente indotta.

Questa corrente, quindi, è proprio la corrente alternata di cui parlavamo precedentemente.

Si può dimostrare che il valore della forza elettromotrice che viene indotta nella spira è data dalla seguente formula:

$ f_(em) (t) = f_0 * sin (ω t)$

dove $f_0$  si definisce come prodotto  $f_0 = BSω$ , con B che indica il modulo del campo magnetico, S la superficie della spira e ω la velocità angolare con cui la spira ruota attorno al proprio asse. La definizione della forza, notiamo, dipende dal tempo; è conveniente scegliere come  $t = 0$  il momento in cui l’angolo che si forma tra il vettore superficie e il vettore campo magnetico è pari a 0 radianti.

L’intensità di corrente, così come la forza elettromotrice, è variabile nel tempo (per questo si dice alternata), e il valore della sua intensità è dato dalla formula seguente:

$ i(t) = i_0 * sin (ω t)$

dove  $i_0$  viene definito come rapporto della forza elettromotrice $f_0$ sulla resistenza R del circuito.

Anche il valore della potenza in un circuito con corrente alternata varia continuamente con il tempo, e dipende dal valore dell’intensità di corrente istantanea i(t).

Possiamo, però, considerare il valore medio della potenza, compreso tra il valore minimo (cioè quello nullo) e il valore massimo (pari a $ R* i_0 ^2 $ ); il valore medio è ottenibile dalla seguente relazione:

$ P_m = 1/2 R * i_0 ^2$

Notiamo che lo stesso valore di potenza può essere ottenuto da una corrente continua; il  valore di tale corrente viene definito valore efficace della corrente; il modulo di tale intensità è dato dalla formula:

$ i_(eff) = frac(i_0)(sqrt2)$

A tale valore della corrente, si può far corrispondere quello di una forza elettromotrice; questa prende il nome appunto di valore efficace della forza elettromotrice:

$ f_(eff) = frac(f_0)(sqrt2)$

 

Il grafico potenza-tempo

Per comprendere meglio il concetto di potenza media, possiamo rappresentare con un grafico l’andamento della potenza nel caso di corrente alternata; la potenza, variabile nel tempo, avrà una curva di questo tipo:

 

potenza-elettrica
Il grafico mostra l’andamento della potenza in funzione del tempo.

 

nel grafico, evidenziamo il valore massimo della potenza (descritto con la retta rossa) e quello medio (rappresentato con la retta verde).

 

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Circuiti in corrente alternata

Esaminiamo alcuni tipi di circuito che sono attraversati da corrente alternata.

 

Il circuito ohmico

In un circuito puramente ohmico, costituito da un alternatore e da una resistenza posti in serie, vale la prima legge di Ohm anche nel caso in cui la corrente presente sia alternata.

Possiamo quindi affermare che la forza elettromotrice alternata è espressa dalla seguente formula:

$ f_(em) (t) = R * i(t)$

Possiamo rappresentare in un grafico l’andamento dell’intensità di corrente e della variazione di tensione, e notare che le due curve hanno lo stesso andamento: quando la tensione si annulla anche la corrente è nulla, mentre quando la tensione raggiunge il valore massimo, anche la corrente è massima.

 

circuito-ohmico
Grafico dell’andamento dell’intensità di corrente ( curva azzurra ) e dalla variazione di tensione (curva rossa).

 

 

Il circuito induttivo

Un circuito puramente induttivo è un circuito teorico, in quanto si ipotizza che la resistenza ohmica presente in esso sia nulla. Il circuito è costituito da un generatore di corrente alternata e un’induttanza; quando la corrente alternata fluisce all’interno di esso, a causa dell’autoinduzione, la corrente viene rallentata a causa di una forza elettromotrice indotta, provocata dalle variazioni del flusso del campo magnetico.

Questa opposizione viene detta reattanza induttiva.

Questo fenomeno spiega come mai in un circuito puramente induttivo non vi sia una caduta di potenziale dovuta alla legge di Ohm.

Si dimostra che l’intensità di corrente che circola nel circuito in funzione del tempo è data dalla seguente formula:

$ i(t) = – frac(f_0)(ω * L) * cos (ω t)$

In questo caso, a differenza dei circuiti ohmici, la corrente induttiva non è in fase con la tensione, a causa della forza elettromotrice indotta che genera uno sfasamento, cioè provoca un ritardo nel passaggio della corrente.

Possiamo rappresentare le curve delle due grandezze con un grafico di questo tipo:

 

circuiti-induttivi
Grafico dell’andamento dell’intensità di corrente ( curva azzurra ) e dalla variazione di tensione (curva rossa).

 

Notiamo che quando la tensione è nulla, la corrente raggiunge il valore massimo (positivo o  negativo), mentre quando la corrente è nulla, la tensione raggiunge i massimi (positivi o negativi). In particolare, la corrente elettrica ritarda rispetto alla forza elettromotrice di un quarto di periodo.

 

Il circuito ohmico-induttivo

Il circuito ohmico-induttivo è composto da un generatore di corrente elettrica alternata collegato in serie ad una resistenza e ad un’induttanza.

Quando la corrente alternata circola in un circuito di questo tipo, la sua intensità sarà minore di quella che si avrebbe se la corrente fosse continua, a parità di tensione alternata.

Infatti, la corrente che circola nel circuito viene rallentata sia dalla resistenza presente nel circuito, sia dalla reattanza induttiva dovuta alla forza elettromotrice indotta dalla corrente.

In questo caso, quindi, la combinazione della resistenza ohmica e della reattanza, nel casi di un circuito percorso da corrente alternata, si definisce impedenza.

 

Il circuito capacitivo

Un circuito capacitivo è caratterizzato da un generatore di corrente elettrica alternata e un condensatore, collegati tra loro.

Nel caso di corrente elettrica continua, la corrente circola nel circuito soltanto finché essa serve per caricare il condensatore; dopodiché si raggiunge una condizione di equilibrio, e il condensatore carico svolge il ruolo di un interruttore aperto, e la corrente non circola nel circuito.

Nel caso in cui, invece, la corrente elettrica sia alternata, dopo un certo periodo di tempo la polarità del condensatore si inverte; in questo modo le armature del condensatore si scaricano per poi ricaricarsi di segno opposto.

A differenza di un circuito puramente induttivo, in questo caso, se la forza elettromotrice è alternata, la corrente elettrica anticipa di un quarto di periodo la forza elettromotrice; possiamo rappresentare le curve delle due grandezze con il grafico seguente:

 

circuiti-capacitivi
Grafico dell’andamento dell’intensità di corrente ( curva azzurra ) e dalla variazione di tensione (curva rossa).

 

In un circuito capacitivo, quindi, l’intensità di corrente in funzione del tempo è data dalla seguente formula:

$ i(t) = C * f_0 *  ω * cos (ω t)$

dove C indica la capacità del condensatore.

 

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I circuiti RLC

Impedenza e reattanza

Un circuito RLC è costituito da un alternatore che produce una forza elettromotrice, collegato in serie con un’induttanza L, una resistenza R e un condensatore di capacità C.

I valori efficaci della forza elettromotrice e dell’intensità di corrente sono direttamente proporzionali, e relazionati, in un circuito RLC in serie, dalla seguente formula:

$ f_(eff) = Z * i_(eff) $

dove Z indica una nuova grandezza definita impedenza del circuito; il valore di Z dipende dalla resistenza R del circuito, dall’induttanza L, dalla capacità del condensatore C e dalla pulsazione ω della forza elettromotrice:

$ Z = sqrt(R^2 + (ω * L  –  frac(1)(ω * C))^2)$

I termini che compaiono all’interno della formula dell’impedenza rappresentano grandezze particolari; il valore ωL prende il nome di reattanza induttiva, mentre la grandezza 1/ωC si definisce reattanza capacitiva.

Notiamo che il valore efficace dell’intensità di corrente è inversamente proporzionale all’impedenza del circuito; quindi, si avranno valori maggiori dell’intensità di corrente quando Z assume valori piccoli.

Minori valori di Z si hanno per base resistenze, cioè quando il valore di R è piuttosto piccolo, o quando si ha l’uguaglianza:

$ LC = frac(1)(ω^2)$

che equivale, cioè, all’annullamento della quantità tra parentesi.

Quando ciò accade si dice che il circuito è in condizione di risonanza.

In questo tipo di circuiti, la forma elettromotrice si ottiene in funzione del tempo con la stessa formula già vista nel caso degli alternatori:

$ f_(em) (t) = f_0 * sin (ω t)$

Possiamo anche calcolare l‘intensità di corrente, in funzione del tempo, per un circuito RLC a cui è applicata una forza elettromotrice come quella precedente:

$ i(t) = frac(f_0)(Z) * sin (ω t – φ)$

Notiamo che nell’argomento del seno compare un angolo φ, detto angolo di sfasamento; possiamo individuare tale angolo con la seguente relazione:

$ tg (φ) = frac(ω * L – frac(1)(ω * C))(R)$

In un circuito in condizione di risonanza, la forza elettromotrice e l’intensità di corrente (efficaci) risultano in fase: in questo caso, quindi, è come se l’induttanza e la capacità del condensatore non influenzassero, cioè come se fosse presente esclusivamente la resistenza totale del circuito.

 

Esercizio

Consideriamo un circuito RLC in serie avente, collegati in serie,  una resistenza R = 8,0 Ω, un’induttanza di 0,50 H e un condensatore di capacità 6,0 μF.

Nel circuito è presente un alimentatore che produce una tensione alternata, il cui valore massimo è di  $2,0 * 10^2 V$  e la cui frequenza è di 50 Hz.

Calcolare l’impedenza del circuito, la corrente massima che circola all’interno di esso e la frequenza di risonanza.

Per calcolare l’impedenza del circuito procediamo calcolando prima la reattanza induttiva e la reattanza capacitiva; per la prima grandezza abbiamo:

$ω * L = 2πf * L = 2π * 50 Hz * 0,50 H = 157 Ω$

dove, ricordiamo, la pulsazione è data dal prodotto di 2π per la frequenza;

mentre per la reattanza capacitiva abbiamo:

$ frac(1)(ω * C) = frac(1)(2πf * C) = frac(1)(2π * 50 Hz * 6,0 * 10^(-6) F) = 531 Ω$

Possiamo ora sostituire i valori trovati all’interno della formula di Z, e determinare così il valore dell’impedenza:

$ Z = sqrt(R^2 + (ω * L – frac(1)(ω * C))^2) = sqrt((8,0 Ω)^2 + (157 Ω – 531 Ω)^2) = 374 Ω$

Cerchiamo ora il valore della corrente massima che circola nel circuito; ricordiamo che, nel caso di circuiti RLC in serie, abbiamo la seguente relazione tra i valori efficaci della tensione e dell’intensità di corrente:

$ f_(eff) = Z * i_(eff) $

Dato che il problema fornisce il valore della tensione massima del circuito, possiamo utilizzare la relazione precedente per terminare il valore massimo dell’intensità di corrente; abbiamo quindi:

$ i_(max) = frac(f_(max))(Z) = frac(2,0 * 10^2 V)(374 Ω) = 0,535 A$

Passiamo ora all’ultimo quesito del problema.

Ricordiamo che un circuito si dice nella condizione di risonanza quando l’impedenza raggiunge il suo valore minimo, e risulta uguale alla resistenza del circuito. Questa condizione equivale anche all’annullarsi della quantità tra parentesi che compare all’interno della formula di Z, e cioè alla seguente condizione:

$ LC = frac(1)(ω^2)$

poiché conosciamo il valore della capacità, e quello dell’induttanza, possiamo ricavare il valore di ω, che viene definito pulsazione di risonanza:

$ LC = frac(1)(ω^2)      to      ω = frac(1)(sqrt(LC))$

sostituiamo i valori numerici e determiniamo il valore della pulsazione di risonanza:

$ ω = frac(1)(sqrt(LC)) =  frac(1)(sqrt(0,50 H * 6,0 * 10^(-6) F)) = 577 s^(-1)$

Ricordiamo ora che la pulsazione e la frequenza sono legate tra loro per un fattore 2π; abbiamo, quindi, che la frequenza è data dalla seguente espressione:

$ ω = 2πf      to      f = frac(ω)(2π)$

Sostituiamo i valori numerici e determiniamo il valore della frequenza di risonanza:

$ f = frac(ω)(2π) = frac(577 s^(-1))(2π) = 92 Hz$

 

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Il trasformatore

Il trasformatore è un dispositivo che lavora con corrente elettrica alternata, ed è in grado di modificare il valore della tensione e della corrente.

Questo dispositivo è costituito da un nucleo di ferro di forma torsionale formato da lamine di ferro sovrapposte e isolate tra loro. Attorno ad esso, sui lati, sono avvolte delle bobine di metallo conduttore:

 

trasformatore

 

delle due bobine, una costituisce il circuito primario, collegato ad una rete elettrica di alimentazione, ed è quello che genera un campo magnetico variabile, poiché in esso circola corrente alternata.

L’altro, invece, è detto circuito secondario, ed è quello in cui si genera corrente indotta.

Chiamiamo con $n_1$ il numero di spire del circuito primario, e con $n_2$ il numero si spire di quello secondario; dalla legge di Faraday-Neumann possiamo ricavare la relazione il valore efficace della tensione in ingresso nel trasformatore ($f_1$), e il valore efficace di quella in uscita ($f_2$):

$ f_(eff) ^(2) = f_(eff) ^(1) * frac(n_2)(n_1)$

In base ai valori delle tensioni, possiamo capire quale sarà la funzione del trasformatore; se la tensione in uscita è minore di quella in entrata, il trasformatore si dice abbassatore, e funge da riduttore; in questo caso, il rapporto di trasformazione (cioè il rapporto tra il numero di spire del circuito secondario e di quello primario) è minore di uno.

In caso contrario, invece, quando la tensione in uscita è maggiore di quella in entrata, il trasformatore si dice elevatore di tensione; il rapporto di trasformazione è maggiore di uno.

In un trasformatore ideale, cioè nel quale il rendimento è del 100%, e non ci sono dispersioni di energia, la potenza che entra nel circuito primario è uguale a quella che si ritrova ai capi del circuito secondario. Ricordiamo che la potenza si esprime come prodotto della forza elettromotrice per l’intensità di corrente.

Per la conservazione dell’energia, quindi, abbiamo che i valori efficaci delle correnti che attraversano i due circuiti sono inversamente proporzionali a quelli delle tensioni, e sussiste la seguente relazione:

$ frac(i_(eff) ^(2))(i_(eff) ^(1)) = frac(f_(eff) ^(1))(f_(eff) ^(2))$

Da questa relazione, possiamo dedurre che se manteniamo costanti le grandezze in ingresso, una piccola tensione in uscita corrisponde ad una corrente in uscita piuttosto elevata; al contrario, se la corrente in uscita è di bassa intensità, si avranno alte tensioni in uscita.

Riassumiamo alcune proprietà che caratterizzano i trasformatori ideali; in essi vi è:

  • assenza di dissipazione di energia per effetto joule nei circuiti primario e secondario;
  • flusso del campo magnetico generato dalle spire confinato solo nei due avvolgimenti, senza dispersioni;
  • assenza di perdite nel ferro.

In un trasformatore reale, invece, vi sono molti aspetti che vanno considerati. Ad esempio, sono presenti delle resistenze negli avvolgimenti, responsabili della dissipazione di parte dell’energia per effetto joule.

Inoltre, parte del flusso magnetico creato dalla corrente viene disperso a causa del non perfetto accoppiamento magnetico tra le due bobine.

 

Esercizio

Consideriamo un trasformatore in cui il circuito primario è composto da 140 spire, mentre quello secondario ne ha 660. Sappiamo che nel circuito primario viene applicata una tensione di 220 V, cosicché si genera una corrente in entrata di 15,0 A.

Ipotizzando che il trasformatore sia ideale, calcolare la corrente che circola nel circuito secondario.

 

Per risolvere il quesito, abbiamo bisogno di conoscere la tensione in uscita, cioè quella del secondo circuito.

Per determinare il suo valore, possiamo applicare la formula vista in precedenza, e calcolare il prodotto tra la tensione in entrata e il rapporto di trasformazione:

$ f_(eff) ^(2) = f_(eff) ^(1) * frac(n_2)(n_1) = 220 V * frac(660)(140) = 1037 V$

Ora, dalla relazione tra i rapporti fra le correnti in entrata e uscita e le rispettive tensioni possiamo ricavare il valore della corrente in uscita:

$i_(eff) ^(2) = frac(f_(eff) ^(1))(f_(eff) ^(2)) * i_(eff) ^(1) = frac(220 V)(1037 V) * 15 A = 3,18 A$

 

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Il campo elettrico e magnetico indotti

Il campo elettrico indotto 

Abbiamo visto che, ponendo un conduttore all’interno di un campo magnetico variabile, è possibile generare una corrente elettrica indotta nel conduttore.

In generale, quando una carica elettrica è in accelerazione, su di essa agisce un campo elettrico; in questo caso, però, la corrente è indotta dal campo magnetico variabile. Di conseguenza, il campo elettrico non è generato dal movimento di cariche elettriche libere, ma anch’esso è indotto, generato cioè dal campo magnetico variabile.

In particolare, le linee di campo magnetico sono perpendicolari a quelle del campo elettrico; il verso delle linee del campo elettrico, inoltre, dipende da come varia il campo magnetico: se il campo magnetico aumenta, le linee del campo elettrico hanno il verso definito dalla legge di Lenz, mentre se il campo magnetico diminuisce, esse hanno verso opposto.

Supponiamo, ad esempio, che una spira circolare sia posta all’interno di un campo magnetico variabile; in questo caso, le linee di campo elettrico indotto sono chiuse e di forma circolare, giacenti in un piano perpendicolare a quello delle linee di campo magnetico; il loro verso segue le regole viste in precedenza:

 

campo-elettrico-indotto
Linee del campo elettrico indotto da un campo magnetico variabile.

 

 

La circuitazione del campo elettrico indotto

Anche per un campo elettrico indotto si può parlare di circuitazione; in questo caso, la circuitazione dipende dalla variazione del flusso del campo magnetico:

$ Γ(vec E) = – frac(∆Φ(vec B))(∆t)$

Possiamo affermare che, poiché per i campi elettrici indotti, il campo magnetico è variabile, e di conseguenza il flusso del campo magnetico è diverso da zero, anche la circuitazione è non nulla; di conseguenza il campo elettrico indotto non è conservativo.

Casi differenti si hanno, invece, nel caso di campi elettrostatici e correnti continue, per i quali il campo magnetico è nullo o costante.

In entrambi i casi, infatti, la variazione del flusso è uguale a zero;  di conseguenza il campo elettrostatico è conservativo. In questo caso, inoltre, si può parlare di energia potenziale associata.

 

Il campo magnetico indotto

Abbiamo visto che un campo magnetico variabile genera un campo elettrico indotto; tuttavia, il fisico scozzese James Clerk Maxwell scoprì che anche una variazione del flusso del campo elettrico genera un campo magnetico.

Anche in questo caso le linee di campo magnetico sono perpendicolari a quelle del campo elettrico.

Tuttavia, il verso delle linee di campo magnetico indotto segue delle regole differenti; se il campo elettrico aumenta, le linee di campo magnetico hanno verso opposto a quello previsto nel caso del campo elettrico indotto; se, invece, il campo elettrico diminuisce, le linee di campo magnetico indotto hanno verso che si oppone al precedente.

La forma delle linee di campo magnetico indotto è molto simile a quella delle linee del campo elettrico indotto:

 

campo-magnetico-indotto
Linee del campo magnetico indotto da un campo elettrico variabile.

 

La circuitazione del campo magnetico indotto

Per descrivere i nuovi effetti di questa affermazione, anche la legge di Ampère fu modificata, e così l’espressione per la circuitazione del campo magnetico è la seguente:

$ Γ_γ (vec B) = μ_0 * (\sum_{j} i_j + ε_0 * frac(∆Φ(vec E))(∆t)) $

dove γ indica la superficie lungo la quale è stato calcolato il flusso del campo elettrico.

Il termine che è stato aggiunto nella parentesi tonda prende il nome di corrente di spostamento; anche se essa non è una corrente di cariche elettriche, ha la stessa unità di misura di una corrente.

Con questa modifica della legge di Ampère è possibile calcolare, ad esempio, la circuitazione del campo magnetico all’interno di un condensatore, dove prima risultava nulla, o in corrispondenza di un suo bordo, dove prima era indeterminata.

In particolare, la circuitazione di uno stesso percorso ha sempre lo stesso valore se essa viene eseguita all’interno di un condensatore, sul bordo di una delle armature, oppure all’esterno di esso.

 

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Le equazioni di Maxwell

Le equazioni di Maxwell hanno il ruolo di assiomi della teoria, in quanto, egli affermò, da esse è possibile trarre tutte le proprietà dell’elettricità, del magnetismo e dell’induzione elettromagnetica.

Queste equazioni riguardano due aspetti fondamentali del campo elettrico e magnetico, che sono il flusso del campo attraverso una superficie chiusa, e la circuitazione di esso lungo un percorso chiuso.

Vediamo, quindi, quali sono queste equazioni.

  • La prima equazione di Maxwell riguarda il flusso del campo elettrico attraverso una superficie chiusa, ed è anche detta teorema di Gauss del campo elettrico:

$ Φ_S (vec E) = frac(Q)(ε_0)$

dove S indica la superficie chiusa, Φ il flusso di campo elettrico attraverso di essa, e Q la carica elettrica interna; $ε_0$, invece, è la costante dielettrica nel vuoto.

  • La seconda equazione riguarda la circuitazione del campo elettrico lungo un percorso chiuso; nel caso dell’elettrostatica e nel caso di correnti continue, sappiamo che la circuitazione è nulla, e questo spiega come mai il campo elettrostatico è conservativo.

Nel caso generale, invece, posiamo esprimere la circuitazione del campo elettrico  con la formula:

$ Γ (vec E) =  \oint_{Γ}   vec E * d vec S = – frac(∆Φ (vec B))(∆t)$

Come abbiamo già visto, la circuitazione del campo elettrico  lungo un percorso chiuso dipende dalla variazione del flusso di  campo magnetico che attraversa la superficie racchiusa dal percorso.

  •  La terza equazione di Maxwell riguarda il flusso del campo  magnetico attraverso una superficie chiusa. In questo caso,  come già sappiamo, il flusso di campo magnetico è nullo.

$ Φ_S (vec B) = 0$

Ricordiamo, infatti, che una delle caratteristiche fondamentali  dei magneti è il fatto che non è possibile creare un solo polo  magnetico, ma in presenza di un polo nord magnetico vi è  sempre un polo sud magnetico; per questo, all’interno di una superficie chiusa, i poli magnetici presenti si annullano a vicenda.

La quarta equazione di Maxwell, infine, riguarda la circuitazione del campo magnetico lungo un percorso chiuso;  come già sappiamo, nel caso statico la circuitazione è data dalla legge di Ampère, e si ha la seguente formula:

$ Γ_γ (vec B) = μ_0 * i$

mentre nel caso di un campo magnetico indotto, la legge viene modificata mediante l’introduzione di un addendo che rappresenta la corrente di spostamento:

$ Γ_γ (vec B) = μ_0 * (\sum_{j} {i_j}  + ε_0 * frac(∆Φ(vec E))(∆t)) $

Notiamo che nella seconda e nella quarta equazione vi è un importante legame tra il campo elettrico e quello magnetico, che non possono più essere considerati come fenomeni indipendenti.  per questo, è utile inquadrarli all’interno di un unico ente fisico, a cui viene dato il nome di campo elettromagnetico.

E’ importante sottolineare che le equazioni di Maxwell sopra descritte hanno validità solo nel vuoto; nella materia, infatti, è possibile che siano presenti ulteriori campi elettrici e magnetici che  danno luogo a una polarizzazione elettrica e magnetica. In questo caso, quindi, le equazioni andrebbero modificate con nuove ed opportune grandezze fisiche.

 

Esercizio

Consideriamo un condensatore piano avente delle armature circolari di area  $15,5       cm^2$. Tra le armature vi è il vuoto, e la densità superficiale di carica presente su di esse varia da  $4,2 * 10^-6 C/m^2$  fino a  $4,9  * 10^-6 C/m^2$  in un tempo di  $1,50  * 10^-2 s$.  Calcolare il valore della corrente di spostamento fra le armature.

Per risolvere il problema abbiamo bisogno di conoscere la variazione del flusso di campo elettrico dovuto alla variazione di densità di carica.

Dalla quarta equazione di Maxwell, infatti, sappiamo che la corrente di spostamento è data dalla formula:

$i_s =  ε_0 * frac(∆Φ(vec E))(∆t) $

Ricordiamo che, per definizione, il flusso del campo elettrico attraverso una superficie è dato dal prodotto scalare del vettore campo elettrico per il vettore superficie; in questo caso abbiamo:

$ i_s =  ε_0 * frac(∆Φ(vec E))(∆t) = frac(ε_0)(∆t) * [Φ_2(vec E) – Φ_1(vec E)] = $

$=  frac(ε_0)(∆t) * [E_2 * S – E_1 * S] $

In un condensatore piano, il campo elettrico all’interno delle armature è dato dal rapporto tra la densità di carica e la costante dielettrica nel vuoto; si ha, quindi:

$ i_s = frac(ε_0)(∆t) * [E_2 * S – E_1 * S] = frac(ε_0)(∆t) * S [E_2  –  E_1 ] = $

$ =  frac(ε_0)(∆t) * S * [ frac(σ_2)(ε_0) –  frac(σ_1)(ε_0)] = frac(S)(∆t) * (σ_2 – σ_1)$

Abbiamo, quindi, tutti i dati necessari per calcolare la corrente di spostamento; sostituiamo i valori numerici ricordando di scrivere le grandezze nelle giuste unità di misura:

$ i_s = frac(S)(∆t) * (σ_2 – σ_1) = frac(15,5 * 10^(-4))(1,50 * 10^(-4)) * (4,9 – 4,2) * 10^(-6) = 7,23 * 10^(-8) A $

 

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Le onde elettromagnetiche

La scoperta delle onde elettromagnetiche è stata effettuata da Maxwell, in seguito allo studio dei campi elettrici e magnetici e all’influenza che essi hanno l’uno sull’altro.

Maxwell notò, infatti, che un campo elettrico variabile genera un campo magnetico variabile; quest’ultimo, a sua volta, è in grado di generare un altro campo elettrico indotto, anch’esso variabile. Il processo, quindi, si protrae teoricamente all’infinito.

Osservando il fenomeno in un grafico, e mettendo in evidenza le variazioni dell’intensità dei campi elettrico e magnetico in funzione del tempo, si può dire che l’oscillazione di un campo elettrico genera l’oscillazione di un campo magnetico nelle vicinanze, e tale oscillazione di propaga nello spazio sotto forma di onda elettromagnetica.

L’esistenza delle onde elettromagnetiche fu scoperta, per via teorica, da Maxwell intorno al 1861, e fu provata sperimentalmente diversi anni dopo dal fisico tedesco Hertz.

Le onde elettromagnetiche si propagano sia nei mezzi elastici, sia nello spazio vuoto, in quanto ciò che oscilla non è un mezzo materiale, ma sono i campi elettrici e magnetici, che variano nello spazio e nel tempo; inoltre, le onde elettromagnetiche trasportano energia, e possono continuare a propagarsi anche quando la carica che le ha generate smette di muoversi.

L’energia che viene trasportata da un’onda elettromagnetica presenta due contributi, uno riguardante l’energia elettrica, e l’altro quella magnetica. Il valore medio di energia trasportato da un’onda, quindi, è dato da:

$ w_(vec E) = 1/4 * ε_0 * E_0 ^2             ,              w_(vec B) = 1/(4μ_0) * B_0 ^2 $

dove  $E_0$   e   $B_0$  rappresentano i valori estremi del campo elettrico e magnetico che vengono raggiunti durante un’oscillazione.

 

Le onde elettromagnetiche e la luce

E’ stato possibile dimostrare che le onde elettromagnetiche si propagano nel vuoto con velocità v che dipende dalle costanti ε0 e μ0, in base alla seguente relazione:

$ v = frac(1)(sqrt(ε_0 * μ_0))$

Inoltre, calcolando esplicitamente il valore di tale velocità, a partire dal valore numerico delle costanti, si nota che il suo valore è pari a quello della velocità della luce nel vuoto.

Da questo risultato è stato possibile concludere che la luce è costituita proprio da onde elettromagnetiche.

 

La generazione delle onde

Le onde elettromagnetiche vengono prodotte da un dispositivo particolare, detto antenna trasmittente.

Il suo funzionamento si basa sull’oscillazione di cariche elettriche che percorrono un conduttore elettrico filiforme, o una lunga struttura di metallo. Muovendosi avanti e indietro lungo tale struttura ad alta frequenza, il flusso di elettroni genera un campo elettrico variabile che, in base alle leggi di Maxwell, genera a sua volta un campo magnetico variabile.

I campi magnetici generati dalle antenne sono spesso molto complicati, ma assumono una forma più semplice se osservati a grande distanza dall’antenna che li genera.

A grandi distanze, infatti, la sorgente delle onde appare puntiforme, e le onde emesse vengono ricevute dall’osservatore come se fossero onde piane.

Infatti, sebbene le onde abbiano fronti d’onda sferici, a grandi distanze vendono rilevate di tali fronti solo delle calotte molto piccole, che assumono quindi le sembianze di quelli di un’onda piana.

In un punto molto lontano dall’antenna, quindi, è possibile anche rappresentare un’onda elettromagnetica, supponendo che in uno spazio tridimensionale, essa si propaghi solo nella direzione positiva dell’asse x:

 

onde-elettromagnetiche

 

Possiamo notare che, in ogni punto della retta di propagazione delle onde, sia il campo elettrico che quello magnetico risultano perpendicolari e proporzionali tra loro, e perpendicolari alla direzione di propagazione dell’onda.

SI conclude, quindi, che le onde elettromagnetiche sono onde trasversali.

Entrambi i campi, inoltre, oscillano in modo concorde, in quanto raggiungo insieme i valori massimi e minimi, e si annullano nello stesso istante.

Entrambe le onde, quindi, si propagano con la stessa frequenza, che corrisponde alla frequenza di oscillazione delle cariche elettriche emesse dalla sorgente; la frequenza, quindi, è data dal rapporto tra la velocità di propagazione e la lunghezza d’onda:

$ f = c/λ $

 

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La polarizzazione delle onde

La polarizzazione delle onde

Nel caso di onde elettromagnetiche, la polarizzazione delle onde riguarda la direzione dei vettori campo elettrico e campo magnetico.

Ad esempio, se un’onda si propaga in un piano, e la direzione dei vettori è sempre perpendicolare a quella di propagazione, si dice che l’onda è polarizzata linearmente.

In particolare, poi, possiamo distinguere due tipi di polarizzazione in base al fatto che l’onda si propaghi in un piano verticale o in un piano orizzontale. Nel primo caso, infatti, si dice che l’onda è polarizzata verticalmente, nel secondo caso invece che l’onda è polarizzata  orizzontalmente.

 

polarizzazione-delle-onde
Onde polarizzate orizzontalmente e verticalmente.

 

In natura, una polarizzazione lineare della luce si ha, ad esempio, quando la luce viene riflessa dall’acqua, da alcuni tipi di plastica, o dal vetro; in generale, quindi, quando la luce viene riflessa da materiali isolanti.

Quando invece l’onda non si propaga solo in un piano, ma i vettori campo elettrico o magnetico ruotano attorno alla direzione di propagazione, si dice che l’onda è polarizzata circolarmente:

 

polarizzazione-circolare
Onda polarizzata circolarmente.

 

In natura, la polarizzazione circolare si ha quando la luce viene riflessa su superfici metalliche.

In alcuni casi, invece, le direzioni dei vettori campo elettrico e campo magnetico non sono sempre perpendicolari alla direzione di propagazione, ma si distribuiscono in maniera casuale, come nel caso della luce naturale. In questo caso, quindi, si parla di luce non polarizzata.

 

I polarizzatori

I polarizzatori sono dei particolari filtri che permettono il passaggio solo di un determinato tipo di luce polarizzata.

Questi strumenti sono costituiti da lamelle conduttrici parallele e separate tra loro con spazi di ampiezza pari alla lunghezza d’onda della luce incidente. Il loro funzionamento permette di impedire l’oscillazione delle onde che si propaga in direzione il cui campo elettrico oscilla parallelamente alle fibre di cui è composto.

I principali polarizzatori che si utilizzano sono quelli lineari e quelli circolari.

Il polarizzatore lineare, costituito da fibre conduttrici parallele, permette il passaggio di luce polarizzata linearmente, ma solo di quella che presenta un campo elettrico che oscilla perpendicolarmente alle fibre conduttrici. Le onde che oscillano in direzione parallela alle fibre conduttrici, invece, vengono assorbite da esse.

Il polarizzatore circolare, invece, permette di generare delle onde il cui piano di propagazione nello spazio ruota con regolarità.

In particolare, questo tipo di polarizzatore fa si che vi sia una variazione ciclica dell’orientamento delle forze elettrica e magnetica.

I filtri polarizzatori sono utilizzati in molti campi: vediamo alcune applicazioni:

  • nella fotografia, i filtri polarizzatori impediscono il passaggio di onde luminose riflesse in specchi d’acqua o superfici trasparenti, così da dare profondità all’immagine, ed evitare effetti chiari o bianchi;
  • negli occhiali per la visione di immagini stereoscopiche sono applicati dei filtri a polarizzazione lineare o circolare nelle lenti; creando una polarizzazione differente nella lente destra e in quella sinistra, le immagini proiettate sullo schermo vengono visualizzate separatamente, e possono essere individuate dall’occhio cui sono destinate;
  • in alcuni tipi di occhiali da sole vengono utilizzati dei filtri polarizzatori per attenuare i raggi ultravioletti e per bloccare la radiazione elettromagnetica.

 

L’irradiamento 

Come sappiamo, le onde elettromagnetiche trasportano energia. Possiamo, quindi, calcolare quanta energia viene trasmessa ad una superficie nell’unità di tempo; in generale, l’irradiamento di una superficie si calcola come rapporto tra l’energia media che attraversa la superficie, e il prodotto tra superficie e intervallo di tempo:

$ I_e = frac(W)(∆S * ∆t)$

Possiamo inoltre esprimere l’irradiamento in funzione dell’energia media trasportata dall’onda e della velocità della luce:

$ I_e = c * w = c * 1/2 ε_0 * E_0 ^2 $

dove $E_0$  indica l’ampiezza massima del campo elettrico.

Vediamo ora come esprimere l’irradiamento della luce uscente da un filtro di polarizzazione.

Consideriamo un fascio di luce polarizzato linearmente che viene filtrato da un polarizzatore, formando con esso un angolo α; supponiamo che il fascio di luce irradi la superficie del polarizzatore con un irradiamento $I_0$. L’irradiamento della luce uscente dal filtro è dato dalla formula seguente, detta anche legge di Malus:

$I_e = I_e ^(0) * cos^2 α$

 

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Lo spettro elettromagnetico

Come abbiamo già visto, la luce visibile è un particolare tipo di onda elettromagnetica; possiamo distinguere diversi tipi di onde elettromagnetiche, che differiscono tra loro per una diversa lunghezza d’onda, e quindi una diversa frequenza di propagazione.

Lo spettro elettromagnetico riassume l’insieme delle frequenze delle onde elettromagnetiche, che vengono divise in base alla frequenza e alla lunghezza d’onda in diversi tipi di radiazione.

 

spettro-della-luce
Lo spettro elettromagnetico della luce; le onde elettromagnetiche vengono divise in base alla frequenza e alla lunghezza d’onda in diversi tipi di radiazione

 

Vediamo, quindi, in ordine di lunghezza d’onda decrescente quali sono i diversi tipi di radiazione elettromagnetica.

 

Le onde radio

Le onde radio sono quelle che occupano la parte di spettro di lunghezza d’onda maggiore, compresa tra 10 km e 10 cm. Questo tipo di onde viene utilizzato per vari impieghi, soprattutto per trasmissioni televisive e radiofoniche.

Grazie ad una lunghezza d’onda piuttosto elevata, queste onde sono in grado si aggirare ostacoli di medie dimensioni, come alberi e case, ma vengono bloccate da ostacoli più grandi, come le montagne.

 

Le microonde

Le microonde hanno una lunghezza d’onda compresa tra 10 cm e 1 mm, e sono utilizzate prevalentemente per telefoni cellulari e comunicazioni telefoniche a lunga distanza.

Quando queste onde attraverso dei materiali, generano delle piccole oscillazioni delle loro particelle, che acquistano energia cinetica e provocano un riscaldamento del materiale.

Per questo, le microonde trovano applicazione anche in campo culinario; i forni  microonde, infatti, utilizzano proprio queste onde per cuocere o riscaldare cibi, sfruttando l’oscillazione delle molecole di acqua presenti in essi.

Le microonde sono utilizzate anche nei radar; esse, infatti, quando colpiscono un oggetto di grandi dimensioni, sono riflesse da esso, e tornano indietro verso la sorgente; questo permette di localizzare il corpo che le ha respinte.

 

La radiazione infrarossa

La radiazione infrarossa è una radiazione elettromagnetica con lunghezza d’onda compresa tra 700 nm e 1 mm; il suo nome deriva dal fatto che, nello spettro elettromagnetico, questa radiazione si trova vicino alla luce visibile, e in particolare, in prossimità del rosso, il colore visibile con frequenza più bassa.

Le radiazioni infrarosse possono essere sfruttate per individuare fonti di calore; tutti i corpi che si trovano al di sopra dello zero assoluto, infatti, emettono radiazioni in questa banda.

Fotografie nell’infrarosso, quindi, permettono di risalire alle temperature possedute dai corpi che si vogliono studiare: le parti a temperature  maggiori sono quelle che appaiono rosse e gialle, mentre quelle verdi e blu sono a temperature più basse.

 

La luce visibile

Lo spettro del visibile comprende radiazioni elettromagnetiche con lunghezze d’onda comprese tra 400 nm e i 700 nm; in questo intervallo, la luce appare ai nostri occhi con colorazioni diverse; le frequenze più basse sono rappresentate dal colore rosso, mentre quelle più alte appaiono con colori blu e viola.

Le lunghezze d’onda intermedie, invece, vengono percepite con sfumature dei colori dell’arcobaleno.

 

La radiazione ultravioletta

La radiazione ultravioletta, che prende il nome dalla vicinanza alla zona del visibile corrispondente al colore viola, comprende radiazioni di lunghezza d’onda comprese tra i 400 nm e i 100 nm.

I raggi ultravioletti, provenienti dalla radiazione del Sole, sono responsabili dell’abbronzatura; essi, infatti, favoriscono il processo di alcune reazioni chimiche, come ad esempio la produzione della melanina, il pigmento che da colore alla pelle.

 

I raggi x

I raggi x sono radiazioni elettromagnetiche con lunghezze d’onda comprese tra 100 nm e 0,1 pm.

Questi raggi possono essere prodotti in dei tubi a vuoto, dove vengono sparati da una sorgente, e proiettati verso un bersaglio: urtando questo bersaglio, gli elettroni subiscono una decelerazione, emettendo così i raggi x.

In medicina, molte strumentazioni utilizzano i raggi x per studiare il corpo umano, ed evidenziare possibili fratture o complicanze; i raggi x, infatti, riescono a penetrare nei tessuti, e vengono arrestati dalle ossa.

Osservando la lastra fotografica di una radiografia, le diverse colorazioni permettono di studiare le ossa del corpo umano.

 

I raggi gamma

I raggi gamma, infine, possiedono le lunghezze d’onda più piccole, che vanno al di sotto dei  $10^(-12) m$.

Questi raggi vengono emessi dai nuclei atomici, e sono presenti soprattutto nelle reazioni nucleari.

Essendo raggi molto invasivi, vengono utilizzati  in campo medico per la cura dei tumori mediante radioterapia; essi vengono prodotti da elettroni ad alta energia, che vengono accelerati da un acceleratore di particelle, e vengono poi convogliati verso uno specifico bersaglio.

 

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Le onde

Le onde possono essere descritte come perturbazioni di qualche proprietà fisica fisica; esse si propagano nello spazio, ed in particolare in un mezzo materiale, partendo da una posizione particolare, detta sorgente.

Le onde possono essere distinte in primo luogo tra onde di tipo meccanico, e onde elettromagnetiche. Le onde di natura meccanica, come il suono, o le vibrazioni di corde, sono oscillazioni del mezzo nel quale si propagano;  le onde elettromagnetiche, invece, come le onde radio, i raggi x e gamma, sono oscillazioni del campo elettromagnetico.

Una caratteristica delle onde è il fatto che esse non trasportano materia, ma solamente energia; infatti, la presenza dell’onda fa si che le particelle che costituiscono il mezzo di propagazione non traslano con il passaggio dell’onda, ma oscillano attorno ad una posizione di equilibrio.

Inoltre, attraverso il movimento dell’onda, i punti che si trovano sul messo materiale interessato dal suo passaggio, acquisiscono energia cinetica, e in base a movimento possono anche aumentare o diminuire la loro energia potenziale.

Vediamo ora alcune caratteristiche fondamentali con cui un’onda può essere descritta.

Si definisce ampiezza di un’onda la differenza tra il picco più alto raggiunto dall’onda e il valore di equilibrio. L’ampiezza viene indicata con A.

La lunghezza d’onda (λ) è la minima distanza che separa due creste successive, o anche la distanza minima dopo la quale un’onda si ripete.

 

lunghezza-d-onda-e-ampiezza
Lunghezza d’onda: corrisponde alla minima distanza tre due creste successive; Ampiezza: differenza tra il picco più alto dell’onda e il valore di equilibrio.

 

Le onde che si ripetono identiche a se stesse dopo un certo intervallo di tempo vengono definite periodiche.

Il periodo di un’onda (T), quindi, è l’intervallo di tempo che impiega un punto del mezzo a compiere un’oscillazione completa.

L’inverso del periodo è la frequenza, che indica il numero di oscillazioni che avvengono nell’unità di tempo; la frequenza (ν) si misura in Hz, cioè $s^1$:

$ f = 1/T$

La frequenza di un onda dipende dalle caratteristiche della sorgente che la emette; nel caso di un onda sonora, ad esempio, la frequenza dell’onda dipende dall’intensità con cui vibra la sorgente che emette il suono.

E’ possibile, inoltre, determinare la velocità di propagazione di un’onda; questa è data dal rapporto tra la lunghezza d’onda e il periodo:

$ v = λ/T$

La velocità di propagazione di un onda dipende dal mezzo nel quale essa si propaga.

Le onde, inoltre, possono essere onde piane, come nel caso delle onde unidimensionale, ad esempio quelle generate da una sorda elastica che vibra; oppure possono essere onde sferiche, come quelle sonore, che si propagano in tutte le direzioni di uno spazio tridimensionale.

 

Onde trasversali e onde longitudinali

Un’altra distinzione tra le tipologie di onde consiste nella divisione tra le onde trasversali e le onde longitudinali; le onde trasversali sono caratterizzate dal fatto che l’oscillazione del mezzo avviene in direzione perpendicolare a quella in cui l’onda si propaga.

Un onda trasversale si ottiene, per esempio, perturbando una corda elastica tesa tra due estremi: infatti, le oscillazioni che si creano sono perpendicolari sono dirette perpendicolarmente alla direzione della corda lungo la quale si propaga l’onda.

 

onde-trasversali
Propagazione delle onde trasversali.

 

Nelle onde longitudinali, invece, l’oscillazione del mezzo e la direzione di propagazione dell’onda sono paralleli tra loro, come accade ad esempio per le onde sonore.

In alcuni casi possono presentarsi onde trasversali e onde longitudinali contemporaneamente, come accade nei fenomeni sismici.

Altre volte, invece, la tipologia di onda dipende dal tipo di mezzo nel quale essa si propaga, oppure nel modo in cui il mezzo viene perturbato.

Ad esempio, nei liquidi e nei gas possono propagarsi solo onde longitudinali, mentre nei solidi il tipo di onda dipende proprio da come il mezzo viene perturbato.

 

Onde elastiche

Le onde elastiche sono onde che si propagano su una corda elastica, su una sbarra di metallo, o nell’aria; di conseguenza, il propagarsi dell’onda dipende dalle proprietà elastiche del mezzo che esse attraversano.

 

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Le onde armoniche e il principio di sovrapposizione

Le onde armoniche

Le onde armoniche sono onde periodiche particolari, in quanto i punti del mezzo materiale che esse attraversano si muovono di moto armonico con il passaggio dell’onda. Ricordiamo che, in quanto onda periodica, anche l’onda armonica si ripete identica a se stessa dopo un certo periodo di tempo.

 

onda-armonica

 

Consideriamo un’onda armonica che si propaga su una corda elastica.

E’ possibile determinare un’equazione per questo tipo di onde che descriva la posizione dell’onda lungo l’asse verticale, rispetto alla posizione di equilibrio della corda, in funzione del tempo; l’equazione è la seguente:

$ y = a*cos(frac(2π)(T) * t + φ_0) = a*cos(ωt + φ_0)$

possiamo trovare l’equazione anche nella forma:

$ y = a*sin(frac(2π)(T) * t + φ_0) = a*sin(ωt + φ_0)$

dove a indica l’ampiezza dell’onda, T il suo periodo, ω la pulsazione del moto armonico (che corrisponde anche a 2π/T); l’argomento del coseno si definisce fase dell’onda e φ rappresenta la fase iniziale, in quanto essa rappresenta la fase dell’onda nell’istante iniziale in cui si ha t = 0.

E’ possibile, inoltre, determinare la posizione dei punti dell’onda sull’asse verticale in funzione della posizione che essi hanno sull’asse orizzontale; in questo caso, quindi, l’equazione della posizione y si a in funzione di x, ed è la seguente:

$ y = a*cos(frac(2π)(λ) * x + φ_0)$

oppure:

$ y = a*sin(frac(2π)(λ) * x + φ_0)$

In questo caso, λ rappresenta il periodo spaziale dell’onda, icone la sua lunghezza.

Quindi, la posizione dei punti dell’onda dipendono dalla posizione di equilibrio della corda, e anche il valore della fase iniziale dipende dalla scelta della posizione dell’origine.

In generale, è possibile descrivere un’onda con un’equazione generica che fornisca la posizione dei punti dell’onda sulla verticale sia inflazione dello spazio che in funzione del tempo. L’equazione più generica, quindi, assume la seguente forma:

$ y = a*cos(k x ± ωt + φ_0)$

o la seguente:

$ y = a*sin(k x ± ωt + φ_0)$

dove il parametro k corrisponde a 2π/λ; il segno + o – dipende dalla direzione di propagazione dell’onda; si avrà, quindi, un segno negativo nel caso in cui la direzione dell’onda abbia lo stesso verso dell’asse x, cioè nel caso di un’onda progressiva, mentre il segno negativo nel caso in cui la propagazione dell’onda avvenga in verso contrario, in questo caso l’onda si dice regressiva.

 

Principio di sovrapposizione

Consideriamo due onde che si trasmettono nello stesso mezzo, che differiscono per una differenza di fase (sfasamento). E’ possibile studiare gli effetti delle onde mediante una sovrapposizione delle stesse.

Definiamo le onde in questione come $ψ_1$ e $ψ_2$, e supponiamo che esse siano descritte dalle seguenti equazioni:

$ψ_1 = a*cos(k x – ωt + φ_1)$

$ψ_2 = a*cos(k x – ωt + φ_2)$

Possiamo sommare le due onde sommando le equazioni che le descrivono, per ottenere l’onda risultante; nella somma delle onde usiamo le formule di prostaferesi relative ai coseni:

$ψ = ψ_1 + ψ_2 = 2a*cos (frac(φ_1 – φ_2)(2)) * cos(k x – ωt + frac(φ_1 + φ_2)(2) ) $

 

Esercizio

Consideriamo un’onda armonica descritta dalla seguente equazione: $y = 2,5 cos (πt)$  in funzione del tempo.

Calcolare il periodo di oscillazione dell’onda e la sua fase iniziale. Sapendo che la sua velocità di propagazione è di 0,04 m/s, quanto vale la lunghezza d’onda?

 

L’equazione dell’onda che ci fornisca il problema ci da informazioni riguardo l’ampiezza dell’onda, che vale 2,5 m, e la pulsazione del moto armonico che compiono i punti interessati dal suo passaggio, pari a π rad/s.

Il periodo di oscillazione dell’onda è legato alla sua pulsazione, e il rapporto che sussiste tra essi è il seguente:

$T = frac(2π)(ω)$

Sostituiamo, quindi, il valore della pulsazione e otteniamo il periodo delle oscillazioni:

$T = frac(2π)(ω) = frac(2π)(π) = 2s$

Notiamo che nell’equazione, l’argomento del coseno è costituito solamente dal prodotto della pulsazione per la variabile tempo, mentre non compare un valore che descriva la fase iniziale; possiamo concludere, quindi, che la fase iniziale sia uguale a zero.

Ricordiamo, ora, che la velocità di propagazione di un’onda si ottiene come rapporto della lunghezza d’onda sul periodo di un’oscillazione; la formula inversa permette di ricavare la lunghezza d’onda:

$ v = frac(λ)(T)      to      λ = v * T $

Conoscendo il periodo di oscillazione, pari a 2 secondi, possiamo ricavare la lunghezza dell’onda; sostituiamo, quindi, i valori numerici:

$ λ = v * T  = 0,04 * 2 = 0,08 m$

 

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L’interferenza e le onde stazionarie

Come abbiamo già visto, quando due o più onde viaggiano nello stesso mezzo, è possibile che esse si sovrappongano, e l’onda che percepiamo è la loro risultante. Il fatto che le onde si sovrappongano, non influenza e non modifica le singole onde.

Quando due o più onde della stessa natura si propagano all’interno dello stesso mezzo, si possono verificare effetti di distribuzione spaziale di energia, che vengono definiti fenomeni di interferenza.

Possono presentarsi due tipi di interferenza, in base a come le onde in questione vengono a sovrapporsi; se le onde si sovrappongono in modo che i massimi di una si trovano in corrispondenza dei massimi dell’altra, cioè se le onde si rafforzano a vicenda, si parla di interferenza costruttiva.

interferenza-costruttiva
Interferenza costruttiva.

 

In questo caso, si dice che lo sfasamento delle onde, cioè la loro differenza di fase, è nullo oppure uguale ad un multiplo di 2π; quindi, le onde sono in fase, e oscillano contemporaneamente raggiungendo i picchi nello stesso istante.

Altrimenti, se i massimi di un’onda si trovano in corrispondenza dei minimi dell’altra, le onde si trovano in opposizione di fase, e si parla di interferenza distruttiva.

 

Interferenza-distruttiva
Interferenza distruttiva.

 

In questo caso, infatti, si parla di opposizione di fase, perché i massimi di un’onda si trovano in corrispondenza dei minimi dell’altra. Questo accade quando la differenza di fase tra le due onde è un multiplo dispari di π.

Cerchiamo di comprendere questo fenomeno esaminando l’onda risultante dalla sovrapposizione di due onde in interferenza.

Consideriamo due onde della stessa frequenza, che si propagano nello stesso verso positivo dell’asse x, quindi due onde progressive, che differiscono per una differenza di fase:

$f_1 = A_1 sin(k x – ω t) $

$f_2 = A_2 sin(k x – ω t + φ) $

E’ possibile sovrapporre le due onde sommando le loro equazioni, e applicando poi le formule di prostaferesi per il seno;  l’equazione dell’onda risultante che si ottiene è la seguente:

$ f = 2 (A_1 ± A_2) sin(k x – ω t + φ/2) * cos(φ/2) $

L’onda risultante ha, quindi, la stessa pulsazione delle onde di partenza, e fase iniziale pari alla metà della differenza di fase selle due onde.

Notiamo, inoltre, che l’ampiezza dell’onda risultante dipende in particolar modo dal valore dell’argomento del coseno.

Abbiamo, quindi, interferenza costruttiva nel caso in cui il coseno abbia valore massimo, cioè uguale a 1;  ciò si verifica quando l’angolo della differenza di fase è multiplo di 2π:

$φ = (2k + 1)π      to     cos(φ/2) = 0      to      f = 0 $

Altrimenti, se tale angolo assume valori multipli dispari di π, il coseno sarà nullo; di conseguenza anche l’intera funzione risultane risulterà nulla. In questo caso, quindi, si ha interferenza distruttiva.

$ φ = 2kπ     to     cos(φ/2) = 0      to      f =  2 (A_1 ± A_2) sin(k x – ω t + φ/2)$

 

Le onde stazionarie

Le onde stazionarie sono onde che provengono dalla sovrapposizione di due onde che sono della stessa natura e della stessa frequenza, ma che si propagano nello stesso mezzo ma  inversi opposti. Quindi, una delle due onde sarà un’onda progressiva, che si propaga nel verso positivo dell’asse x;  l’altra, invece,  che si propaga nel verso opposto, sarà un’onda regressiva.

In questo caso, l’onda risultante, espressa in funzione sia del tempo che dello spazio, ha la caratteristica di presentare queste due variabili come argomenti di due funzioni trigonometriche separate.

Se consideriamo due onde di partenza che hanno la stessa ampiezza, e che sono descritte dalle seguenti equazioni:

$f_1 = A sin(k x – ω t) $

$f_2 = A sin(k x + ω t) $

l’equazione dell’onda che ne risulta è la seguente:

$f = 2Asin(k x)cos(ω t)$

La presenza delle variabili dello spazio e del tempo che si trovano separate fa si che queste onde presentino dei punti in cui l’onda si annulla, che vengono definiti nodi, e altri punti in cui l’onda ha ampiezza massima, detti ventri.

In particolare, l’onda si annulla quando sin(kx)=0, e quindi per valori di kx multipli di π; mentre, il valore massimo e minimo dell’onda si ha per angoli che rendono sin(kx) uguale a +1 o -1, e quindi per angoli multipli dispari di π/2.

 

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Il fenomeno dei battimenti e l’effetto doppler

Il fenomeno dei battimenti

Il fenomeno detto dei battimenti si verifica quando due onde della stessa natura ma con frequenza leggermente diverse, che si propagano all’interno dello stesso mezzo, nella stessa direzione e nello stesso verso, interferiscono tra loro e si sovrappongono.

Possiamo descrivere il fenomeno dei battimenti come delle variazioni periodiche dei picchi massimi e minimi dell’onda risultante; la frequenza di questa nuova onda viene definita frequenza di battimento, e si ottiene come differenza delle frequenze delle onde di partenza.

Consideriamo due onde di questo tipo che possono essere descritte dalle seguenti equazioni:

$f_1 = A sin(k_1 x – ω_1 t)$

$f_2 = A sin(k_2 x – ω_2 t)$

Sommando le equazioni delle precedenti onde, e applicando le formule di prostaferesi per il seno, otteniamo la seguente equazione per l’onda risultante:

$f = 2A cos(frac(x(k_2 – k_1) – t(ω_2 – ω_1))(2)) sin (frac(x(k_2 + k_1) – t(ω_2 + ω_1))(2))$

Considerando una particolare posizione nel mezzo, il valore della funzione dipende esclusivamente dalla variabile temporale.

Per studiare con più facilità questo tipo di equazione, quindi, è conveniente scegliere la posizione iniziale, quella per cui si ha x = 0; in questo caso, l’equazione assume la seguente forma:

$f = – 2A cos(frac(ω_2 – ω_1)(2) t) sin (frac(ω_2 + ω_1)(2) t)$

 

Esempio

Da questa equazione possiamo notare che l’ampiezza dell’onda risultante non è costante, ma varia nel tempo; possiamo notare questo fenomeno osservando l’esempio seguente:

Consideriamo due onde sonore che hanno frequenze di 40 Hz e 50 Hz, rappresentate in verde e in blu nella prima immagine.

Se ascoltiamo questi due suoni contemporaneamente, si ha una sovrapposizione delle onde, come possiamo vedere dalla seconda immagine.

Il suono che viene percepito dal nostro orecchio non risulta come due suoni distinti, ma come un unico suono di altezza intermedia, e caratterizzato da battimenti.

battimenti

 

Questo fenomeno è dovuto al fatto che l’onda risultante presenta una doppia oscillazione, di cui nel primo caso si ha una bassa frequenza;  l’argomento del coseno, infatti, presenta la metà della differenza delle pulsazioni delle onde iniziali, che è una quantità piuttosto piccola, perché le frequenze iniziali sono circa uguali.

La seconda oscillazione, invece, è caratterizzata da una frequenza molto maggiore, in quanto l’argomento del seno è dato dalla media delle pulsazioni iniziali.

Notiamo che nel caso in cui la differenza tra le frequenze delle onde iniziali sia elevata, non si verificherebbe più il fenomeno dei battimenti, e il suono risultante viene percepito come due suoni distinti.

 

L’effetto doppler

Anche l’effetto doppler si manifesta comunemente nel caso di sorgenti sonore; un esempio è il fatto un osservatore fermo sulla strada può capire facilmente, sentendo il suoni di un’ambulanza, se essa è in avvicinamento o in allontanamento dal modo in cui viene percepito il suono della sirena.

L’effetto doppler, quindi, si presenta nel caso in cui la sorgente che emette le onde sia in movimento rispetto il ricevitore, oppure nel caso in cui il ricevitore sia in movimento rispetto alla sorgente, o ancora, se il ricevitore e la sorgente sono in movimento reciproco.

Consideriamo, quindi, il caso più generale in cui l’osservatore e la sorgente sono in moto reciproco lungo la stessa direzione. La frequenza delle onde che viene percepita dall’osservatore può essere calcolata mediante la seguente formula:

$ ν’ = ν * frac(1 + frac(ν_R)(ν_o))(1 – frac(ν_S)(ν_o))        ,         ν’ = ν * frac(1 – frac(ν_R)(ν_o))(1 + frac(ν_S)(ν_o))$

dove v indica la frequenza dell’onda per una sorgente ferma, percepita da un ricevitore fermo;  $v_R$  indica la velocità con cui si sposta il ricevitore, mentre  $v_S$  la velocità della sorgente; $v_o$, invece, è la velocità di propagazione dell’onda.

I segni variano in base al moto reciproco sorgente-ricevitore; si hanno i primi segni nel caso in cui la sorgente e il ricevitore sono in avvicinamento.

 

Casi particolari

Da questa formula generale possiamo ricavare le formule relative ai casi in cui uno dei due tra osservatore e sorgente sia fermo.

Ad esempio, se la sorgente è ferma e il ricevitore si sposta, si avrà che  $v_S = 0$, quindi la formula diventa:

$ ν’ = ν * (1 ± frac(ν_R)(ν_o))$

In questo caso, il segno + si ha nel caso in cui l’osservatore si avvicina alla sorgente, in quanto le onde percepite avranno frequenza maggiore.

Se invece è la sorgente che si sposta  l’osservatore è in quiete, la formula che fornisce la nuova frequenza di onda è la seguente:

$ ν’ = ν * frac(1)(1 ± frac(ν_S)(ν_o))$

In questo caso, se la sorgente si muove verso il ricevitore vS ha segno negativo.

 

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Le onde sonore

Le onde sonore sono onde longitudinali, che si possono propagare sia nei messi solidi, che nei liquidi e nei gas. L’unico mezzo in cui le onde non possono propagarsi è il vuoto.

Questo tipo di onda è generata dalla vibrazione un corpo: le corde vocali che ci permettono di parlare, infatti, sono delle membrane tese, che possono vibrare quando sono colpite dall’aria che fuoriesce dai nostri polmoni.

Anche il funzionamento di molti strumenti musicali è dovuto alla vibrazione di alcune corde, come nel caso delle chitarre, o dei pianoforti.

Le onde sonore sono onde longitudinali, e sono generate da compressioni e decompressioni continue del mezzo di propagazione; se le onde si propagano nell’aria, quindi, vi saranno compressioni e rarefazioni delle masse di aria che circondano l’onda, come nel caso in cui viene pizzicata una corda tesa:

 

onde-sonore
Compressioni e rarefazioni delle masse di aria che circondano un’onda.

 

Nel primo caso, l’aria al di sopra della corda viene compressa, mentre quella al di sotto è più rarefatta; nel secondo caso, invece, l’oscillazione della corda provoca una compressione dell’aria sottostante e una rarefazione di quella al di sopra.

 

La velocità del suono

La velocità di propagazione del suono dipende dal mezzo i cui si propaga, oltre che dalla temperatura e dalla pressione in cui si trova tale mezzo; le velocità maggiori vengono raggiunte quando il suono attraversa materiali come il ferro e il granito, mentre le velocità minori si raggiungono con la gomma vulcanizzata.

La velocità di propagazione del suono nell’aria è pari a 330 m/s alla temperatura di 0° C e alla pressione atmosferica.

 

L’altezza del suono

L’altezza del suono distingue i suoni più acuti da quelli più gravi, ed è strettamente collegata alla frequenza dell’onda sonora.

Maggiore è la frequenza dell’onda, infatti, tanto più il suono risulterà alto; negli strumenti musicali, infatti, i suoni più alti sono prodotti dalle corde più fine, che quando vengono pizzicate oscillano con frequenze maggiori di quelli più spesse.

Le onde sonore hanno frequenza compresa tra i 20 Hz e i 20000 Hz, cioè l’intervallo di frequenza che è percepibile dall’orecchio umano.

Al di sotto di questi valori, l’orecchio umano non è in grado di percepire i suoni, come invece possono fare alcuni animali, e si parla di infrasuoni.

Al di sopra di 20000 Hz, invece, i suoni possono provocare danni all’udito, anche permanenti; in questo caso si parla di ultrasuoni.

 

L’intensità del suono

L’intensità del suono, invece, riguarda il livello di volume che viene percepito; elevate intensità corrispondono a volumi più alti, mentre intensità basse a volumi più bassi. L’intensità dipende dall’ampiezza dell’onda sonora, e aumenta con l’aumentare di questa.

L’intensità del suono può essere misurata considerando l’energia trasportata dalle onde sonore che attraversano una determinata superficie piana nell’intervallo di tempo; l’intensità, infatti, è espressa come rapporto tra l’energia e il prodotto dell’area della superficie per il tempo:

$ I = frac(E)(A * ∆t) $

La sua unità di misura è  $W/m^2$ ; tuttavia, per misurare l’intensità sonora è spesso utilizzata un’altra unità di misura, il decibel (dB). Questa grandezza, valida nel Sistema Internazionale, si ottiene mediante la seguente formula:

$ L_s = 10log_10frac(I)(I_0) $

dove  $L_s$ indica il livello di intensità sonora, mentre I è l’intensità dell’onda che viene percepita e  $I_0$  rappresenta la minima intensità percepibile.

La minima intensità percepibile, che può per certi aspetti essere soggettiva, vale all’incirca  $10^-12 W/m^2$;  ad esso corrisponde l’intensità di 0 dB. Sopra la soglia di 90 dB il suono può dare fastidio, e in certi casi può anche provocare danni all’udito. Intensità più elevate, come 140 dB, corrispondono alla soglia del dolore, e causano danni permanenti.

 

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La luce

Così come il suono, anche la luce è un’onda, ma in questo caso non si tratta di un’onda meccanica, ma un’onda elettromagnetica.

E’ possibile osservare e studiare la luce considerando i raggi luminosi che essa produce, definito come  fasci di luce molto sottile, che possono essere rappresentati come delle rette.

Lo studio della luce attraverso i raggi luminosi permette di semplificare alcuni aspetti che, se considerassimo la luce come un’onda elettromagnetica, sarebbero più complicati.

Nel caso delle onde, è necessario che vi sia una sorgente che, perturbando l’ambiente circostante, emetta le onde; anche in questo caso, vi sono sorgenti luminose che emettono raggi di luce, come ad esempio il sole, le lampadine, o il fuoco.

I raggi di luce emessi dalla sorgente si diffondono in tutte le direzioni, e colpiscono tutti i corpi circostanti, che vengono così illuminati. Questi corpi che vengono colpiti dai raggi di luce possono reagire in due modi:

  • se i corpi che sono colpiti dai raggi bloccano la luce, essi vengono definiti corpi opachi; questo è il caso, ad esempio, di oggetti metallici;
  • se invece gli oggetti colpiti dai raggi luminosi si lasciano attraversare da essi, si parla di oggetti trasparenti; questo è il caso dell’acqua, dell’aria o del vetro.

se gli oggetti si lasciano attraversare parzialmente dai raggi di luce, ma non permettono di distinguere la forma della sorgente da cui essi provengono, ci troviamo in una situazione intermedia tra quelle precedenti, e in questo caso si parla di oggetti traslucidi; uno di questi è il vetro smerigliato, o la carta.

Come abbiamo detto precedentemente, i raggi di luce possono essere rappresentati come delle linee rette; possiamo osservare questo fenomeno considerando una sorgente puntiforme che colpisce un oggetto, proiettando la luce su una superficie piana.

Notiamo che l’ombra che si osserva sulla parete corrisponde alla forma dell’oggetto che stiamo illuminando, anche se viene leggermente dilatata.

 

Fascio di luce e zona d'ombra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La zona più scura, che non viene colpita dai raggi luminosi, si definisce zona d’ombra.

La velocità di propagazione dei raggi luminosi, nel vuoto, può essere approssimata a 3,00 10^8 m/s, cioè circa trecentomila km/s; secondo la teoria della relatività questa grandezza rappresenta la massima velocità raggiungibile in natura; nessun corpo dotato di massa, però, è in grado di raggiungerla o superarla.

 

L’irradiamento

In quanto onda, anche la luce ha la caratteristica di trasportare energia, ma non materia. Questo spiega perché un corpo lasciato al sole, dopo un po di tempo, si riscalda.

Per misurare la quantità di energia che un raggio luminoso cede ad un oggetto illuminato si utilizza una nuova grandezza, che prende il nome di irradiamento.

L’irradiamento può essere calcolato con una formula simile a quella dell’intensità sonora; esso è dato, infatti, dal rapporto tra l’energia trasportata dai raggi di luce sul prodotto dell’area della superficie colpita nell’intervallo di tempo considerato:

$E_e = frac(E)(A * ∆t) $

In particolare, l’intensità dell’irradiamento varia anche in base alla distanza che separa l’oggetto irradiato con la sorgente luminosa; infatti, al variare della distanza varia anche la parte di superficie che viene colpita dalla luce.

A piccole distanze corrispondono piccole aree di superficie irradiate, mentre allontanando la sorgente, la parte di area irradiata aumenta.

Di conseguenza, a parità di energia trasportata dai raggi luminosi, l’irradiamento è inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra sorgente e superficie.

 

Esercizio

Consideriamo una sorgente puntiforme che illumina una parte, posta a distanza d da essa; l’area della parte illuminata misura 1 m^2. A quale distanza occorre portare al sorgente affinché l’area della parte illuminata sia doppia della precedente?

In entrambi i casi l’energia trasportata dai raggi luminosi è la stessa; l’intensità dell’irradiamento nel primo caso è data dalla seguente formula:

$E_e = frac(E)(A * ∆t)  = frac(E)(∆t)$

Sappiamo che tale intensità diminuisce in modo inversamente proporzionale con il quadrato della distanza tra sorgente e superficie.

Se l’area che vogliamo illuminare è doppia della precedente, nel secondo caso si avrà un irradiamento pari alla metà del precedente:

$E_e = frac(E)(2A * ∆t)  = frac(E)(2∆t)$

Quindi, poiché nel primo caso abbiamo un irradiamento E, e la distanza corrispondente è d, sapendo che nel secondo caso l’irradiamento è E/2, e che la diminuzione è inversamente proporzionale al quadrato della distanza, la distanza necessaria per ottenerlo è √2 d.

 

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L’angolo solido e le grandezze fotometriche

L’angolo solido

Consideriamo una sorgente luminosa che emana un fascio di luce, e ipotizziamo che tale sorgente si trovi all’interno di una superficie sferica. Proiettando il fascio di luce sulla superficie sferica, possiamo definire angolo solido la parte del fascio di luce che è contenuta all’interno della sfera:

angolo-solido

 

L’angolo solido si può ottenere considerando una sfera di raggio r; indicando con A l’area della regione della sfera intercettata dal fascio luminoso, l’angolo solido si ottiene dalla seguente formula:

$Ω = frac(A)(r^2)$

La sua unità di misura è detta steradiante.

La conoscenza dell’angolo solido ci permette di introdurre una nuova grandezza, l’intensità di radiazione. Come nel caso dell’intensità sonora, anche l’intensità di radiazione esprime la quantità di energia che attraversa una superficie in un determinato intervallo di tempo.

In questo caso, il valore dell’intensità di radiazione è dato dal rapporto tra l’energia trasportata dal fascio luminoso sul prodotto dell’angolo solido per l’intervallo di tempo:

$I = frac(E)(Ω * ∆t) $

Anche in questo caso, l’intensità dipende dalla lontananza della sorgente dalla superficie investita. Nel caso della luce, infatti, poiché lo spazio non è vuoto, una parte della luce emessa viene assorbita; di conseguenza, solo se la superficie è molto vicina alla sorgente il valore dell’intensità sarà accurato.

 

Le grandezze fotometriche

Le grandezze fotometriche si distinguono da quelle esaminate finora (dette radioelettriche), perché queste permettono di capire gli effetti della luce per come viene percepita dall’occhio umano, e di conseguenza sono grandezze soggettive.

Una di queste è l’intensità luminosa, che esprime quanto una determinata sorgente appare brillante dall’occhio che la percepisce. L’unità di misura dell’intensità luminosa è, nel sistema internazionale, la candela. Possiamo definire la candela, quindi, come l’intensità luminosa di una sorgente che emette dei raggi luminosi con intensità di radiazione pari a  $1/683 W/sr $, e con una frequenza di  $540 ∙10^12 Hz $.

Un’altra grandezza fotometrica è il flusso luminoso, definito come la quantità di luce che viene emessa da una sorgente in un secondo. La sua unità di misura nel Sistema Internazionale è il lumen. Se la sorgente luminosa che stiamo considerando possiede un’intensità luminosa di 1 cd, e essa irradia in tutte le direzioni (cioè suo angolo solido misura 4π sr), il flusso luminoso corrispondente è di 1 lm.

Dal flusso luminoso, indicato con fi, è possibile definire un’altra grandezza fotometrica, l’illuminamento; l’illuminamento, infatti, è dato dal rapporto tra il flusso luminoso e l’area della superficie che viene colpita dal fascio di luce:

$E_L = frac(Φ_L)(A)$

Questa grandezza viene espressa nel S.I. con il lux (lx).

 

Esercizio

Il Sole emette luce colpendo la superficie terrestre con un irradiamento pari a  $1,35 kW/m^2 $, misurato su una superficie perpendicolare alla direzione della luce, e considerando la distanza media Terra-Sole, che vale circa  $0,1496 ∙10^12m$.  Calcolare:

  • L’energia irradiata dal Sole in un secondo in un angolo solido completo;
  • la corrispondente intensità di radiazione in un secondo.

 

Per risolvere il promo punto, possiamo ricavare il valore dell’energia trasferita dal sole dalla formula dell’irradiamento:

$ E_e = frac(E)(A*∆t)      to      E = E_e * A * ∆t$

L’unico dato incognito che troviamo nella formula è l’area della parte compita dai raggi luminosi; conoscendo, però, l’angolo solido descritto dai raggi luminosi, possiamo ricavare il valore dell’area:

$Ω = frac(A)(r^2)        to       A = Ω * r^2$

Sostituiamo il valore trovato nella formula precedente:

$E = E_e * A * ∆t = E_e * Ω * r^2 * ∆t $

Ora nella formula compaiono tutti termini noti, e possiamo procedere sostituendo i valori numerici per determinare l’energia irradiata:

$E = 1,35 * 10^3 * 4π * (0,1496 * 10^12)^2 * 1 = 0,38 * 10^27 = 3,8 * 10^26 J$

Passiamo ora al secondo punto del problema; ricordiamo che l’intensità i radiazione si ottiene dal rapporto tra l’energia irradiata e il prodotto dell’angolo solido per l’intervallo di tempo:

$I = frac(E)(Ω * ∆t) $

in questo caso, siamo a conoscenza di tutti i dati necessari, e possiamo determinare immediatamente il valore dell’intensità di radiazione:

$ I = frac(3,8 * 10^26)(4π * 1) = 0,302 * 10^26 W/sr = 3,02 * 10^25 W/sr$

 

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La riflessione della luce

Come sappiamo, le onde luminose si propagano sotto forma di raggi di luce, e possono essere schematizzati come linee rette.

Quando i raggi colpiscono una superficie, specialmente se si tratta di superfici metalliche, si osserva che essi vengono riflessi, dando luogo ad un raggio anch’esso rappresentabile come linea retta.

In particolare, l’angolo che si forma tra il raggio incidente e la verticale per il punto di incidenza, è uguale all’angolo che il raggio riflesso forma con tale verticale. Inoltre, la verticale, e i due raggi in questione giacciono sullo stesso piano.

Queste osservazioni vengono fatte su via sperimentale, e trovano applicazione anche quando la superficie su cui incide il raggio non è liscia, ma presente delle irregolarità.

 

Lo specchio piano

Il caso che abbiamo descritto precedentemente riguarda la riflessione di un raggio di luce quando esso viene a contatto con una superficie liscia e piana; in questo caso, quindi, si parla di specchio piano.

Queste osservazioni permettono do capire come si formano le immagini degli oggetti  che vengono riflesse dagli specchi piani.

Quando guardiamo un oggetto allo specchio, questo non ci appare esattamente uguale a quella che è in realtà; se osserviamo la nostra immagine allo specchio, il nostro braccio sinistro corrisponderà al braccio destro dell’immagine riflessa.

Di conseguenza, se osserviamo le due immagini, quella reale e quella riflessa, notiamo che esse non sono sovrapponibili; per questo esse si definiscono speculari:

 

riflessione
Confronto tra immagine reale e immagine riflessa.

 

L’immagine che vediamo, infatti, si forma dietro lo specchio, dove si prolungano  i raggi riflessi.

L’immagine che si forma dietro lo specchio, quindi, viene definita virtuale; quella che vediamo fisicamente, invece, cioè l’oggetto non riflesso, si definisce immagine reale.

Le due immagini sono esattamente simmetriche, e si trovano alla stessa distanza dallo specchio.

 

Gli specchi curvi

I raggi di luce possono riflettere delle superfici non piane, ma curve, e possono essere riflessi da queste.

Gli specchi di questo tipo vengono anche definiti parabolici; essi presentano un punto caratteristico, detto fuoco, da cui possono avere origine i raggi che poi vengono riflessi.

In particolare, la diffusione dei raggi che si formano varia in base alla posizione in cui si trova la sorgente dei raggi luminosi, e all’angolo di incidenza di questi con lo specchio.

Alcuni specchi curvi vengono definiti specchi sferici, in quanto essi sono porzioni della superficie di una sfera.

In questo caso, se la parte di sfera che rappresenta lo specchio è piuttosto piccola, cioè entro certe dimensioni dell’angolo al centro che l’area individua, il fuoco possiede una posizione fissa; esso si trova esattamente a metà raggio.

La distanza del fuoco dallo specchio, lungo la retta del raggio, si dice distanza focale; l’angolo al centro viene definito apertura, e l’asse ottico è l’asse di simmetria dello specchio, che passa per il centro della sfera e il fuoco:

 

specchio-curvo
Caratteristiche di uno specchio curvo.

 

In base a come i raggi di luce raggiungono la superficie dello specchio, avremmo dei raggi riflessi di direzioni differenti; se, ad esempio, i raggi passano proprio dal fuoco, essi verranno riflessi parallelamente all’asse ottico; se invece arrivano paralleli ad esso, i raggi riflessi passeranno per il fuoco.

Tracciando l’andamento dei raggi, e individuando la direzione dei raggi riflessi, è possibile prevedere quale sia la forma dell’immagine che si crea. Per individuare il punto preciso in cui si forma l’immagine, è sufficiente determinare l’intersezione di due soli raggi riflessi;  in questo caso l’immagine individuata si dice reale.

Si ha, invece, un’immagine virtuale nel caso in cui essa sia data dall’intersezione dei prolungamenti dei raggi riflessi.

Con queste considerazioni, possiamo definire due tipi di specchi sferici, gli specchi concavi e gli specchi convessi.

Nel caso degli spechi concavi, il fuoco e il centro si trovano dalla stessa parte da cui provengono i raggi luminosi.

L’immagine che si forma è data dall’intersezione dei raggi riflessi; essa quindi è reale, se l’oggetto riflesso si trova oltre il fuoco, quindi lontana dallo specchio; mentre sarà virtuale se l’oggetto si trova tra il fuoco e lo specchio.

Nel caso degli specchi convessi, invece, il centro e il fuoco si trovano dalla parte opposta di quella da cui provengono i raggi di luce; di conseguenza l’immagine che si forma dell’oggetto sarà sempre virtuale.

 

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La legge dei punti coniugati

Nel caso degli specchi curvi, è possibile determinare la posizione dell’oggetto riflesso, e quella dell’immagine che si forma in due modi: il primo consiste nel disegnare le rette che rappresentano i raggi di luce, determinare le loro intersezioni, e trovare quindi il punto in cui si forma l’immagine.

Ad esempio, consideriamo uno specchio in cui l’oggetto che dobbiamo riflettere si trova molto lontano dallo specchio, oltre il centro.

Consideriamo due raggi principali che partono dall’oggetto: uno di essi ha direzione parallela all’asse ottico, quindi il raggio riflesso passerà per il fuoco; l’altro viene proiettato sullo specchio torna indietro; la loro intersezione ci darà la posizione dell’immagine reale che si forma:

 

specchi-curvi

 

Nel caso in cui l’oggetto che viene riflesso si trovi tra il fuoco e lo specchio, allora l’immagine che si viene a creare è individuata dal prolungamento dei raggi riflessi, ed è quindi un’immagine virtuale;

infatti, come possiamo vedere, in questo caso non vi è intersezione tra i raggi riflessi, ma l’intersezione si può formare dietro lo specchio con i loro prolungamenti:

 

specchi-curvi

Il secondo metodo, invece, utilizza una determinata formula, che prende il nome di legge dei punti coniugati:

$1/p + 1/q = 1/f$

Dove p india la distanza dell’oggetto dallo specchio, q la distanza dell’immagine dallo specchio, e f è la distanza focale. In questo modo, conoscendo due delle distanze citate, è possibile ricavare la terza senza procedimenti pratici.

In particolare, nel caso di uno specchio convesso, sapendo che la distanza focale equivale alla metà del raggio, possiamo modificare la formula precedente inserendo questa informazione:

$1/p + 1/q = -2/r$

Si usa il segno meno perché in uno specchio convesso il fuoco si trova dalla parte opposta rispetto all’oggetto da riflettere, quindi il fuoco stesso è virtuale. Dall’uguaglianza possiamo notare che, poiché la distanza oggetto-specchio è positiva, in quanto l’oggetto si trova davanti allo specchio convesso, anche la distanza q risulta negativa.

Si conclude, quindi, che in questo caso l’immagine che si forma si troverà dietro lo specchio, e sarà quindi un’immagine virtuale.

Possiamo esaminare questo aspetto anche dal punto di vista grafico; l’oggetto in questione si trova davanti allo specchio. Prendiamo due raggi principali, uno dei quali con direzione parallela all’asse ottico, l’altro di direzione diversa.

Anche in questo caso, i raggi riflessi non si incontrano, ma si possono incontrare i loro prolungamenti; il punto di incontro ci fornisce la posizione dell’immagine virtuale che si forma:

 

specchi-curvi

 

Ingrandimento lineare

Come abbiamo visto negli esempi precedenti, sia che l’immagine sia reale, sia che essa sia virtuale, è possibile che l’immagine riflessa risulti ingrandita o rimpicciolita rispetto a come è l’oggetto di partenza.

Definiamo, quindi, l’ingrandimento lineare come il rapporto tra la lunghezza dell’immagine riflessa e la lunghezza dell’oggetto.

E’ possibile dimostrare che tale rapporto equivale al rapporto tra la distanze dell’immagine dallo specchio e la distanza dell’oggetto dallo specchio:

$G = frac(q)(p)$

 

Esercizio

Consideriamo la riflessione su uno specchio concavo di un oggetto che si trova a 70 cm dalla superficie dello specchio, che è stato ricavato da una sfera di diametro 1,30 m.

Calcoliamo la distanza dallo specchio dell’immagine che si forma, e il relativo ingrandimento.

Dai dati del problema sappiamo che il diametro della sfera è di 1,30 m, quindi il suo raggio misura 0,65 m. Dato che lo specchio in questione è uno specchio concavo, sappiamo che la distanza focale, cioè la distanza del fuoco dallo specchio, è esattamente uguale al raggio.

Inoltre, il problema fornisce la distanza dell’oggetto dallo specchio (p); possiamo, quindi, applicare la legge dei punti coniugati per ricavare la distanza dell’immagine dallo specchio:

$1/p + 1/q = 1/f       to       1/q = 1/f – 1/p = frac(p-f)(fp)       to      q = frac(fp)(p-f)$

Ricordando che la distanza focale è uguale alla metà del raggio, si ottiene:

$  q = frac(fp)(p-f) = frac(r/2 * p)(p – r/2)$

Possiamo ora sostituire i valori numerici:

$ q = frac(0,325 * 0,7)(0,7 – 0,325) = 0,61 m$

L’ingrandimento dell’immagine si calcola come rapporto tra la distanza dell’immagine dallo specchio e la distanza dell’oggetto dallo specchio; quindi si ha:

$ G = q/p = frac(0,61)(0,7) = 0,87 $

 

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La rifrazione della luce

Abbiamo visto, nel caso di uno specchio, che i raggi riflessi ci permettono di determinare la posizione dell’immagine riflessa di un oggetto.

E’ possibile ottenere un’immagine riflessa non solo con degli specchi, ma anche per esempio con una superficie d’acqua.

In questo caso, però, non si parla più di riflessione, ma di rifrazione. Il fenomeno riguarda il passaggio dei raggi di luce da un messo ad un altro.

Ad esempio raggi provenienti ad esempio dal sole, e che si propagano quindi nell’aria, vengono a contatto con la superficie dell’acqua, e si inabissano in essa.

Il passaggio da un mezzo all’altro fa si che i raggi non si trasmettano in linea retta, ma subiscono una variazione di angolo. In particolare, se i raggi provengono dall’aria, essi creeranno dei raggi rifratti, che si formano sotto la superficie dell’acqua, che tendono ad avvicinarsi alla perpendicolare alla superficie:

 

raggio-incidente-e-rifratto

 

Nel caso in cui, invece, i raggi provengano proprio dall’acqua, il passaggio di mezzo è l’opposto, in quanto esso passerà dall’acqua all’aria; in questo caso, il raggio rifratto presenterà un angolo tale da farlo allontanare dalla verticale:

 

raggio-incidente-e-rifratto

 

Come abbiamo già visto, la velocità di propagazione di un’onda dipende dal mezzo in cui essa si trova; la velocità della luce, in particolare, è minore nei mezzi trasparenti, rispetto alla velocità che avrebbe nel vuoto.

E’ utile individuare il rapporto tra la velocità della luce nel vuoto e la sua velocità in un determinato mezzo; questa grandezza viene definita indice di rifrazione assoluto:

$  n = frac(c)(v) $

Questo valore è sempre maggiore di 1, tranne nel caso in cui il mezzo di propagazione dell’onda sia proprio il vuoto; in questo caso, infatti, l’indice di rifrazione è massimo e vale 1.

Possiamo individuare, sperimentalmente, le caratteristiche della rifrazione dei raggi luminosi quando essi passano da un mezzo all’altro, che presentano indici di rifrazione differenti, mediante le seguenti due leggi:

  • il raggio incidente, il raggio rifratto che si forma, e la perpendicolare alla superficie nel punto di incidenza possono essere rappresentati con delle rette che appartengono allo stesso piano;
  • il rapporto tra i seni degli angoli che si formano con la retta perpendicolare, cioè l’angolo di incidenza e quello di rifrazione, è costante; tale rapporto, inoltre, è uguale al rapporto tra gli indici di rifrazione dei due mezzi che vengono attraversati.

Quest’ultima legge è rappresentata dalla formula che prende il nome di formula di Snell, ed è la seguente:

$frac(sin \hat{i})(sin \hat{j}) = frac(n_2)(n_1)$

dove i e j rappresentano, rispettivamente, l’angolo di incidenza e l’angolo di rifrazione; n2 e n1 sono, rispettivamente, gli indici di rifrazione del secondo e del primo mezzo.

In particolare, il rapporto tra gli indici di rifrazione dei mezzi viene definito indice di rifrazione relativo.

L’indice di riflessione relativo di un determinato mezzo rispetto ad un altro è uguale al reciproco di quello del secondo mezzo rispetto al primo.

In base a tale indice possiamo definire delle caratteristiche reciproche dei due mezzi: se l’indice di rifrazione è maggiore di 1, si dice che il secondo mezzo è più rifrangente del primo, o che esso è più otticamente denso.

 

Esercizio

Consideriamo un raggio di luce indicente che forma con la superficie di separazione tra aria e acqua un angolo di incidenza di 46°. Sapendo che l’indice di rifrazione dell’acqua vale 1,33, determinare l’angolo di rifrazione quando il raggio passa dall’aria all’acqua.

I questo caso, il raggio incidente proviene dall’aria, che presenta indice di rifrazione uguale a 1; l’aria, quindi, rappresenta il primo mezzo, mentre il secondo è l’acqua. Per determinare l’angolo di rifrazione che si forma, possiamo applicare la legge di Snell, e ricavare con la formula inversa il valore del seno del secondo angolo:

$frac(sin θ_2)(sin θ_1) = frac(n_1)(n_2)       to     sin θ_2 = frac(n_1)(n_2) * sin θ_1$

Determiniamo il seno dell’angolo cercato sostituendo i valori numerici:

$sin θ_2 = frac(n_1)(n_2) * sin θ_1 = frac(1)(1,33) * sin 46° = 0,54$

Calcolando la funzione inversa del seno, possiamo trovare il valore dell’angolo di rifrazione:

$θ_2 = arcsin (0,54) = 33° $

 

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La riflessione totale

Quando un raggio di luce che si propaga in acqua viene a contatto con la superficie di separazione, una parte di esso viene riflessa indietro, all’interno della superficie di acqua che funge come da specchio; un’altra parte, invece, emerge dall’acqua, e si allontana dalla normale secondo la legge di Snell.

Mano a mano che aumenta l’angolo di incidenza, aumenta anche l’angolo di rifrazione, fino ad un valore limite; a questo punto, il raggio rifratto non fuoriesce più dalla superficie dell’acqua, ma continua a propagarsi lungo la retta di separazione dei due mezzi.

Possiamo definire, quindi, l’angolo limite come quell’angolo di incidenza per cui il valore dell’angolo di rifrazione è pari a 90°.

Il valore dell’angolo limite può essere ricavato dalla legge di Snell; chiamiamo con i l’angolo di incidenza, e con j l’angolo di rifrazione; siano, inoltre, n1 e n2 gli indici di rifrazione dei mezzi attraversati dal raggio di luce.

Dalla formula di Snell possiamo ricavare il seno dell’angolo di  incidenza:

$sin /hat{i} = frac(n_2)(n_1) * sin /hat{j}$

Come da definizione, l’angolo limite si ha per il valore di 90° dell’angolo di rifrazione; sapendo che il seno di 90° è uguale a 1, possiamo ricavare il valore dell’angolo limite:

$sin /hat{i} = frac(n_2)(n_1)        to       /hat{i} = arcsin (frac(n_2)(n_1))$

Per angoli maggiori dell’angolo limite, quindi, non vi è più il raggio rifratto; sarà presente solamente il raggio riflesso diretto all’interno della superficie di acqua, su cui fluisce tutta l’energia luminosa proveniente dal raggio iniziale.

Per questo si parla di riflessione totale.

Questo fenomeno accade quando il raggio di luce passa da mezzi con indice di rifrazione diversa, di cui il primo ha un indice maggiore del secondo.

La riflessione totale è sfruttata in molti casi in cui è necessario deviare i raggi di luce, per esempio per vedere zone che si trovano ad angolazioni diverse da quella in cui stiamo guardando. Ad esempio, i periscopi dei sommergibili utilizzano un prisma per deviare i raggi di luce; in questo modo permettono di guardare al di sopra della superficie dell’acqua.

Il prisma, dunque, sfrutta il fenomeno della riflessione totale.

 

La dispersione della luce

La dispersione della luce è un fenomeno che riguarda la scomposizione della luce bianca nei vari colori che costituiscono il suo spettro.

Il fenomeno fu studiato per la prima volta da Isaac Newton, che sfruttò un prisma triangolare su cui era convogliato un fascio di luce bianca; egli notò che il fascio di luce, attraversando il prisma, si scompone in tutti i colori che costituiscono il suo spettro.

 

dispersione-della-luce
Fenomeno della dispersione della luce.

 

Questo fenomeno è dovuto al fatto che l’indice di rifrazione di una determinata sostanza trasparente varia in base al colore della luce che la attraversa. In particolare, quando la luce attraversa il prisma e fuoriesce dalla parte opposta, il raggio subisce due rifrazioni; infatti in totale esso attraversa tre mezzi (aria-vetro-aria).

Quando i raggi di luce escono dal prisma, essi sono paralleli tra loro, ma di colori differenti; in particolare, gli angoli che essi formano con la direzione del raggio incidente sono diversi.

L’angolo che si forma tra il raggio incidente e il raggio emergente dal prisma viene definito angolo di deviazione; il suo valore dipende, a parità di angolo di incidenza iniziale, sia dall’indice di rifrazione del materiale, sia dall’angolo al vertice del prisma.

Il fenomeno della disperazione della luce è particolarmente evidente nel caso dell’arcobaleno; in questo caso, infatti, i raggi di luce provenienti dal sole vengono a contatto con le goccioline di acqua, e passandovi attraverso vengono riflessi e dispersi da esse.

 

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Le lenti sferiche

Le lenti sferiche sono dei corpi tridimensionali costituiti da un materiale trasparente; la loro superficie, come dice il nome stesso, è una superficie sferica, che può essere bombata verso l’esterno, o concava verso l’interno; in base a questo la lente potrà ingrandire o rimpicciolire l’immagine che vi viene riflessa.

Come nel caso degli specchi, anche per le lenti possiamo definire l’asse ottico come la retta che congiunge i centri delle superfici sferiche che costituiscono la lente; il centro O come il punto dell’asse ottico che è equidistante dalle pareti della lente, e la distanza focale come la distanza che separa il fuoco dal centro O.

Come sappiamo, quando un raggio di luce attraversa una superficie che rappresenta un mezzo diverso, il raggio viene rifratto; l’angolo di rifrazione che si forma permette di distinguerlo dal raggio di partenza.

Raggio incidente e raggio rifratto, quindi, non giacciono sulla stessa retta, ma presentano direzioni diverse. La stessa cosa accade nel caso di una lente sferica, in cui i mezzi che il raggio deve attraversare sono due; nel primo caso, si passa da aria a vetro, nel secondo da vetro ad aria.

Nel caso, però, delle lenti sottili, si ha un fenomeno differente.

Si parla di lenti sottili quando lo spessore della lente sia molto piccolo rispetto ai raggi delle superfici sferiche che la delimitano. In questo modo, la distanza tra le rette di incidenza che colpiscono la lente in prossimità del centro, e le rette che rappresentano i raggi uscenti, è trascurabile; si può considerare che il raggio esca dalla lente praticamente invariato rispetto come vi era entrato.

Possiamo ora introdurre la distinzione tra lenti sferiche convergenti e lenti sferiche divergenti, ipotizzando che esse siano anche lenti sottili; vediamo le loro caratteristiche.

 

Le lenti convergenti

Le lenti convergenti sono lenti che permettono migliorare l’immagine che vi viene riflessa, o di vederla meglio; per questo sono molto utilizzate per realizzare strumenti che permettono di migliorare la vista, come occhiali, e lenti di ingrandimento.

Queste lenti sono caratterizzate dal fatto di presentare una forma più sottile agli estremi, e una più bombata al centro. In corrispondenza dell’origine si ha il punto di massimo spessore:

Lenti-sferiche-convergenti

 

Come nel caso degli specchi, anche per le lenti convergenti è possibile determinare la posizione dell’immagine che si forma. Dobbiamo fare attenzione, però, al tipo di raggio incidente che colpisce la lente.

Se il raggio incidente è parallelo all’asse ottico, allora li raggio rifratto converge nel fuoco ; se il raggio incidente passa esso stesso per il fuoco, allora il raggio rifratto avrà direzione parallela all’asse ottico; invece, se il raggio rifratto passa per il centro, si può considerare giacente sulla stessa retta di quello rifratto.

Come per gli specchi, basterà individuare due raggi riflessi, determinare le direzioni dei raggi rifratti, e la loro intersezione fornirà la posizione dell’immagine che si crea.

Anche in questo caso, in base alla posizione dell’oggetto che stiamo studiando, la sua immagine potrà essere reale o virtuale. Il primo caso si ha se l’oggetto si trova oltre il fuoco; l’immagine sarà rimpicciolita, uguale, o ingrandita rispetto a quella di partenza in base alla posizione di quest’ultima rispetto alla distanza focale).

Il secondo caso si verifica, invece, se l’oggetto si trova tra la lente e il fuoco; l’immagine prodotta è sempre ingrandita.

Se l’oggetto è nel punto esatto del fuoco non verrà individuata nessuna immagine.

 

Le lenti divergenti

Le lenti divergenti sono caratterizzate dal fatto di essere più spesse negli estremi, e in prossimità del centro raggiungono il loro spessore minimo.

 

lenti-sferiche-divergenti

 

Queste lenti fanno si che i raggi incidenti paralleli all’asse ottico vengano tutti rifratti, e che i loro prolungamenti si intersechino tutti nel fuoco.

In questo caso, l’immagine risultante è sempre virtuale, e rispetto all’oggetto di partenza, essa risulta sempre rimpicciolita.

 

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La formula delle lenti sottili e le aberrazioni delle lenti

La formula delle lenti sottili

La formula delle lenti sottili si presenta nella stessa forma della legge dei punti coniugati. Anche in questo caso, quindi, è possibile determinare la distanza oggetto-lente, immagine-lente e la distanza focale se si conoscono le altre due grandezze.

Vediamo il caso in cui la lente in questione sia una lente sferica convergente, e l’oggetto che vogliamo esaminare sia una freccia.

Per determinare l’immagine che si forma, consideriamo due raggi qualunque che colpiscono la lente; prendiamo una raggio parallelo all’asse ottico e un raffio che passa per il centro.

Nel primo caso il raggio rifratto avrà direzione passante per il fuoco; nel secondo caso il raggio rifratto avrà la stesa direzione del raggio incidente.

Determiniamo l’intersezione dei raggi rifratti, e individuiamo così la posizione dell’immagine:

 

lenti-sottili

 

La formula che ci permette di relazionare le tre distanze in questione è la seguente:

$1/p + 1/q = 1/f$

In particolare, la grandezza 1/f si definisce potere diottrico; questo esprime la capacità di una lente di modificare la direzione dei raggi incidenti e di convogliare i raggi rifratti per dar luogo all’immagine.

Come per gli specchi, anche nel caso delle lenti il segno di q da informazioni riguardo il tipo di immagine che si verrà a formare; valori di q positivi indicano che l’immagine è reale; valori di q negativi indicano che l’immagine è virtuale.

Possiamo definire, anche nel caso delle lenti, il potere di ingrandimento di una lente, definito ingrandimento lineare. Esso si ottiene come rapporto tra la distanza dell’immagine dalla lente e la distanza dell’oggetto dalla lente:

$G = q/p$

Se il valore di G è negativo, l’immagine risulterà capovolta.

 

Le aberrazioni delle lenti

Le aberrazioni delle lenti sono dei difetti che possiedono le lenti sferiche, e possono essere, ad esempio, l’aberrazione cromatica e l’aberrazione sferica.

L’aberrazione cromatica riguarda il colore dell’immagine formata, che spesso non coincide pienamente con il colore dell’oggetto. Molto spesso questo fenomeno si presenta con la formazione di strisce colorate intorno ai bordi dell’immagine riflessa.

Il fenomeno è dovuto al fatto che in base al colore del raggio di luce che attraversa la lente, il suo fuoco cambia posizione. Infatti, come sappiamo, l’indice di rifrazione dei mezzi trasparente cambia in base al colore del raggio che li attraversa.

Per questo due raggi di luce che viaggiano paralleli all’asse ottico, nella stessa direzione, avranno un angolo di rifrazione differente; di conseguenza intersecheranno l’asse ottico in punti differenti.

 

aberrazione-lenti

 

Per risolvere questo problema, e creare un sistema detto acromatico, è sufficiente sovrapporre due lenti, di cui una convergente e l’altra divergente.

Le aberrazioni sferiche, invece, riguardano l’angolo di rifrazione dei raggi rifratti; proprio per questo esse sono responsabili di una deformazione o sfumatura dell’immagine creata.

Come sappiamo, i raggi incidenti che viaggiano paralleli all’asse ottico, vengono rifratti in raggi che passano tutti per il fuoco.

Tuttavia, in base alla distanza tra la direzione dell’asse ottico e il raggio incidente, varia la direzione del raggio rifratto; i raggi incidenti più distanti, infatti, subiscono una deviazione maggiore di quelli più vicini.

Di conseguenza, la posizione del fuoco non risulta ben definita, ma si parla di cerchio di minima confusione per indicare la zona in cui i raggi rifratti sono più concentrati.

 

aberrazioni-sferiche

 

Anche in questo caso, è possibile ridurre il fenomeno impedendo ai raggi più distanti di colpire la lente, e di permettere solo a quelli più vicini di giungerci; in questo modo si cerca di rendere il cerchio di minima confusione sia più ristretto possibile.

Altrimenti, per ridurre l’effetto è possibile adoperare più lenti sovrapposte, o scegliere lenti di forme o materiali di costruzione diversi.

 

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Le teorie sulla natura della luce

Le teorie sulla natura della luce

Per molti anni gli scienziati hanno riflettuto su quale fosse la vera natura della luce, e in particolare furono sviluppate due correnti di pensiero opposte: la teoria corpuscolare e la teoria ondulatoria.

 

La teoria corpuscolare

Secondo la teoria corpuscolare (formulata da Isaac Newton), la luce sarebbe composta da una serie di particelle emesse dalla sorgente luminosa, che si muovono nel mezzo seguendo le leggi della meccanica classica. La propagazione delle particelle, quindi avveniva in linea retta, e tale flusso era in grado di rimbalzare contro gli ostacoli e di passare attraverso i mezzi trasparenti.

 

luce-corpuscoli

 

Con questo modello era possibile spiegare diversi fenomeni riguardanti la luce, come la formazione delle ombre nette e delle eclissi;

fenomeni come l’arcobaleno erano spiegati prendendo in considerazione un grandissimo numero di particelle colorate, e la luce bianca era il risultato dell’unione di moltissime di esse.

 

La teoria ondulatoria

Secondo la teoria ondulatoria, invece, il cui esponente principale fu Christiaan Huygens, la luce aveva le stesse caratteristiche di un’onda che si propaga in un determinato mezzo, che inizialmente fu definito etere.

Si credeva che l’etere fosse presente in tutto l’universo, e che fosse costituito da una grandissima quantità di particelle elastiche, che permettevano il propagarsi dell’onda.

In quanto onda, la velocità della luce varia nel passaggio di essa attraverso due mezzi di densità differente.

 

luce-onde

 

Con questo modello potevano essere spiegati, anche se in maniera più complicata rispetto alla teoria corpuscolare, una grande quantità di fenomeni della luce, fra i quali la riflessione e la rifrazione.

Come possiamo notare, le due teorie sono opposte, e per questo erano fonte di attrito tra i rispettivi sostenitori: secondo la teoria ondulatoria, poiché la luce è vista al pari di una qualsiasi onda, essa non può trasportare materia, ma solo energia;

la teoria corpuscolare, invece, afferma proprio il contrario, in quanto la luce sarebbe composta da delle particelle, e quindi materia, che si propagano nel mezzo.

 

La teoria di Maxwell

Solo nel 1800 ci fu il prevalere di una teoria sull’altra, grazie ad alcuni esperimenti che mettono in evidenza delle caratteristiche della luce che sono proprie delle onde.

Una delle principali affermazioni che permise di escludere il modello corpuscolare fu la scoperta che la velocità della luce nei mezzi trasparenti è minore della sua velocità nel vuoto, così come affermava la teoria ondulatoria.

Se si considera la luce come insieme di particelle corpuscolari, invece, la sua velocità nella materia dovrebbe risultare maggiore di quella nel vuoto.

La definitiva teoria che ne derivò, fu affermata da Maxwell, il quale propose la definizione di luce come onda elettromagnetica, derivante da una perturbazione dei campi elettrici e magnetici, che fanno di che le onde si propaghino anche nel vuoto.

 

La teoria di Einstein

Studi successivi, poi, in particolare grazie alla teoria della relatività di Einstein, vi fu un’altra formulazione sulla natura della luce.

Nel 1905, infatti, Einstein riesci a spiegare l’effetto fotoelettrico introducendo il concetto di fotone.

L’effetto fotoelettrico consiste nel fatto che, quando una superficie metallica viene colpita da un fascio di luce, essa emette degli elettroni, che si distaccano dalla sua superficie.

 

effetto-fotoelettrico
Effetto fotoelettrico

 

Einstein ipotizzò che la luce si comportasse come un’insieme di pacchetti energetici (quanti di energia), detti fotoni; questi, venendo a contatto con gli elettori del metallo, trasferivano loro la propria energia, facendo si che gli elettroni potessero distaccarsi dalla superficie.

La conclusione cui si giunse in seguito a questa teoria fu che in alcune circostanze la luce si comporta come un’onda, e in altre come un insieme di corpuscoli; di conseguenza, nessuna delle due teorie fu esclusa, e per questo di parla di natura dualistica della luce.

 

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