Silent ha scritto:Quello che non riesce ad andarmi giù è il dover accettare che dobbiamo sostanzialmente diffidare dalle nostre idee semplici e genuine. In fin dei conti, è da lì che parte tutto, eppure poi percorriamo talmente tanta strada per "far sì che le cose siano dimostrate formalmente" che alla fine, guardando indietro, quell'intuizione quasi non si vede più.
Capisco che tu ti riferisci a una situazione di ricerca scientifica, e della matematica "come strumento descrittivo dei fenomeni naturali", e che lì venga probabilmente in mente più naturalmente il discreto.
Ma in generale, che alla mente umana sia più vicina l'idea di discreto che di continuo, mi sembra dubbio.
La nostra percezione del mondo fisico è da un lato discreta, vediamo oggetti staccati gli uni dagli altri, e li si può anche contare (nelle civiltà che sanno contare).
Però la percezione dello spazio e degli oggetti nello spazio e del mondo è anche spontaneamente continua, noi immaginiamo un blocco di materia come qualcosa di continuo, l'idea dell'atomo non ci si impone spontaneamente.
E istintivamente pensiamo a qualcosa di infinitamente divisible, la cui natura, boh, non è che ci capiamo molto, da cui tutto l'amabaradan degli infinitesimi.
C'è una percezione del mondo e dello spazio come un unicum, qualcosa continuo, e insieme discreto: c'è la sedia, poi c'è l'aria, poi un'altra cosa, ma tutto attaccato: l'idea di vuoto non è spontanea, e ha sempre fatto vacillare la mente.
La stessa idea di retta continua è istintiva.
Poi, quando è stato necessario definirne concettualmente l'essenza, della retta e del continuo, là sono comiciato i dolori.
Insomma, non sono affatto sicura che la nostra mente privilegi il discreto al continuo, ma credo che sia costretta a passare dal continuo al discreto e viceversa, perché entrambi le si impongono naturalmente.
C'è una domanda filosofica, di Leonardo Da Vinci, che a me fa impazzire:
"Che è che adunque divide l'aria dall'acqua? È necessario che sia un termine comune che non è d'aria né d'acqua, ma incorporeo, perché un corpo interposto infra due corpi proibisce il loro contatto, il che non accade nell'acqua coll'aria... Adunque una superfizie è un termine comune di due corpi che sien continui, né participa né dell'uno né dell'altro, perché, se la superfizie fussi parte, ella avrebbe grossezza divisibile, il che non essendo divisibile, el nulla divide tali corpi l'un dall'altro."
Sembra avere una idea di una superficie come una astrazione, senza massa fisica divisibile.
Ma è difficile arrabbattarsi, in una situazione effettivamente poco comprensibile, perché rifiuta il discontinuo tra i due corpi, i corpi sono in contatto, ma sono allo stesso tempo separati.
Cioè, noi vediamo il mondo come un continuum, ma in cui gli oggetti sono distinti e separati, ma come e da che?
Cos'è una superficie? Si diventa scemi.
Come si risponde e come si riponderebbe con le conoscenze matematiche attuali? Forse due insiemi aperti (senza bordo), tra cui però non c'è un buco, tipo un piano a cui togli una retta.
Mi fermo con il pippone filosofico.
Volevo ricordarti che c'è un libro di Paolo Zellini proprio dedicato la tema del discreto e continuo in matematica, si chiama appunto,
Discreto e continuo. Storia di un errore, del 2022, Adelphi.
Paolo Zellini, credo che lo conosci, è di una cultura pazzesca, perché è un matematico che insegna analisi numerica, quindi il dicreto lo conosce bene, ma spazia da Aristotele agli altari vedici, a Rabelais, alla filosofia antica in genere, e poi ovviamente tutta la storia della matematica.
L'errore di cui parla è l'idea che siamo abituati, nella storia del pensiero e nella tradizione filosofica, "a pensare il continuo come un
primum, un insieme ideale e autosufficiente, da cui ogni cosa ha origine". Eppure "ciò che conosciamo effettivamente è il discreto, e tutto il calcolo moderno si basa sull'informazione insita nella serie di numeri che approssimano elementi di un continuo".
Ricorda un po' quello che diceva dissonance nel suo post sopra.
In particolare c'è, ad esempio, il capitolo su 'Limiti e continutà: origine algoritmica', in cui dice, tra le altre cose, che le definizioni con $\epsilon -\delta$ lasciano vedere l'origine algoritmica, quindi discreta, dei concetti.
Insomma, è un libro sulla matematica piuttosto denso.
Ora me lo hai ricordato, e devo ricordarmi di leggerlo, non l'ho letto.