li stiamo solamente allontanando dall'idea sacrosanta che la matematica in fondo è un bacino di certezze (forse l'unico).
Il prurito che mi viene quando leggo queste stronzate, non avete idea...
Ci sono due affermazioni in quel commento: entrambe sono delle posture ideologiche spacciate per oggettive. Che è la cosa che mi fa incazzare.
1. Non si può insegnare la matematica in maniera troppo formale a dei quindicenni
Segretamente la domanda di apertura di questo thread penso fosse proprio: perché non si può, esattamente? E soprattutto si sta dicendo che "non si può" perché è sbagliato, perché è inutile, perché è controproducente?
Ci sono due modi di approcciare il problema: o trovare dei dati quanto più oggettivi possibile, o affidarsi a una posizione ideologica che ha ben poco di oggettivo (che viene desunta, ad esempio, da certa cattiva divulgazione, o dall'immagine infedele dei presupposti metodologici ed ermeneutici del matematico -stortura che viene inculcata ai matematici stessi, che si dice non abbiano bisogno né di incontrare le sottigliezze delle questioni fondazionali, né di acquisire un po' di linguaggio per approcciare questo problema: l'ethos dell'insegnamento).
E il problema è sottile per molti motivi, il più pesante dei quali è: supponiamo che il calcolo delle relazioni venga insegnato come preliminare per definire la corrispondenza "radice quadrata" nel modo giusto. Questo scatto in avanti di astrazione creerebbe certamente confusione e sconcerto nei ragazzi, ma il problema sta nel loro apparato cognitivo che è ancora immaturo per l'astrazione, o nei cicli di istruzione precedente che a quell'astrazione li ha disabituati? Se avete una risposta semplice a questa domanda, vi invidio.
2. la matematica è un bacino di certezze
Qualsiasi cosa significhi questa sciocchezza, si tratta anche qui di una postura ideologica, tra l'altro obsoleta da più di un secolo. L'impressione della maggioranza dei filosofi della matematica (che siano anche individui la cui opinione merita qualche attenzione) è che la matematica sia un corpo di conoscenze che ha sia una dimensione oggettiva, cioè costruisce un sapere valido per tutti, sia una dimensione sociale, nel senso che (ad esempio) il processo che ingloba un nuovo risultato all'interno dei vecchi avviene in due modi: (a) certificazione di correttezza ("il teorema enuncia un fatto vero, e viene dimostrato senza errori") e (b) verifica della conformità d'approccio ("il teorema è scritto nell'idioletto dei matematici").
La certificazione della correttezza, da sola, non "fa" la matematica, e questo è il motivo per cui, nella versione semplificata della biografia di Ramanujan, quest'ultimo ebbe così tanta difficoltà a farsi capire dai suoi "pari" quando venne inserito nel milieu della matematica europea: i risultati che lui vedeva, sebbene "veri", erano impassibili di verifica.
Ora, le due posizioni sono certamente correlate: l'opinione rispetto allo statuto ontologico della matematica, cioè rispetto a dove essa si ponga rispetto agli altri saperi, influenza inevitabilmente la postura che si prende rispetto alla prima domanda, cioè se valga la pena e quanto sia efficace evitare di semplificarla ad uso dei cervelli dei ragazzini.
Da parte mia, credo che l'educazione debba instillare il dubbio rispetto allo status quo, e l'urgenza di risolvere quel dubbio, e che chi non dubita sia, semplicemente, inadatto a ricevere un'educazione superiore. A chi la cerca, la condizione necessaria per ottenere un'istruzione è venire stuprati dalla irrisolvibile, sfacciata complessità del reale; sopravvivere a questo trauma, e cercare di correggere la propria deficienza cognitiva quanto più è possibile.
Credo che imparare le definizione giuste faccia male, che sia giusto che faccia male, e che chi invece auspica il contrario non abbia capito cosa sia ricevere un'istruzione, né quale sia il modo proficuo di ottenerla.
In quanto prodotto dell'intelletto umano, la matematica non è esente dalla necessità di presentarsi come un corpo di conoscenza in perenne costruzione, e andrebbe mostrata nella sua complessità (nella sua evoluzione storico-critica, similmente a quanto si fa con la filosofia, maledetto Gentile e i so' morti), anche a costo di confondere profondamente, perché costringe ad avere definizioni "malleabili".
La matematica non è un "bacino di certezze"
tout court, ma lo è dati alcuni presupposti: è quest'ultimo a renderla diversa da una scienza sperimentale, ma è tanto irreale quanto la poesia -e ha, secondo me, dei punti di contatto metodologici con quest'ultima, ma questa è un'altra storia come si dice. Questi presupposti sono -sempre- radicati nell'urgenza di comprendere, in ciò di cui si
vuole parlare a tutti i costi perché sta, disgraziatamete, lì davanti a noi; e perciò questi presupposti sono -sempre- variabili e passibili di modifica: credevamo che le radici quadrate di numeri negativi fossero un'abominio, così come infinite rette parallele a una data, o nessuna, poi qualcosa ci ha mostrato incontrovertibilmente che così non è, o peggio, che la nostra incapacità di accettare un fatto era dovuta al nostro pregiudizio, più che all'effettiva impossibilità o ripugnanza del fatto stesso.
Quando abbiamo capito che a essere "sbagliata" non è la credenza che a certi presupposti le parallele a una data retta siano tante, ma la superstizione per cui la matematica debba parlare del mondo unicamente per come esso ci appare, abbiamo cambiato alla radice i presupposti epistemologici con cui facevamo matematica. Senza fare tante storie, tra l'altro.
Ora, queste idee che ho messo goffamente per iscritto sono state date
a me quando avevo 15-16 anni, non più tardi; linearizzate, pettinate, semplificate ad uso del delfino, quel che volete, ma mi sono state consegnate a forza; ne ho certamente tratto sgomento, e rabbia (perché qualsiasi ragazzino reagisce con rabbia quando si rende conto che fino al momento prima gli/le avevano mentito, e se non lo fa è un debosciato).
Ma, mi sembra, a parte essere diventato un individuo profondamente sgradevole e ingombrante, ho retto il colpo discretamente.